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 2005  ottobre 06 Giovedì calendario

E venne un omino. Vanity fair 06/10/2005. Keith Haring? Un maestro Manzi arrivato dallo spazio! La maggior parte di voi non sa nemmeno chi sia Alberto Manzi

E venne un omino. Vanity fair 06/10/2005. Keith Haring? Un maestro Manzi arrivato dallo spazio! La maggior parte di voi non sa nemmeno chi sia Alberto Manzi. Beati, siete giovani! Manzi era il conduttore della trasmissione Rai degli anni Sessanta Non è mai troppo tardi. Il maestrone nazionale insegnò, a più di un milione di persone, a leggere e scrivere facendo fantastici disegni, con il gessetto bianco, su una lavagna nera. Keith Haring, con il gessetto disegnava sugli spazi neri delle stazioni della metropolitana di New York, riportando l’arte dentro un linguaggio di segni e geroglifici che anche gli analfabeti potevano gustare. Il suo programma avrebbe potuto chiamarsi Non è mai troppo presto. Mai troppo presto per diventare famosi, mai troppo presto per morire, come fece lui, a soli trentun anni, di Aids, il 16 febbraio del 1990. Figlio di un ingegnere che si dilettava a disegnare vignette, anche Keith, nato nel 1958 nell’oscura Kutztown, Penn-sylvania, sembra essere una vignetta ideata da suo padre, capello pettinato e grandi occhialoni come il personaggio di una striscia. Keith Haring, d’altronde, vivrà la sua breve vita facendo proprio fumetti e vivendo come uno di loro, sul confine della realtà. Apparentemente asessuato è, invece, appena arrivato a New York, nel 1978, onnivoro ad altissimo rischio. La promiscuità, in quegli anni, regna sovrana e Keith non ha timore di raccontare, in una struggente intervista con David Sheff di Rolling Stone, pochi mesi prima di morire, che lui, appena uscito dall’armadio della vergogna omosessuale, non aveva avuto paura di sprofondare nella sperimentazione erotica più audace. Arriva a Manhattan, dalla provincia, con un bagaglio artistico di poco conto, imparato alla scuola d’arte di Pittsburgh, ma viene subito folgorato da un’arte che gli arriva a tutta velocità contro; l’arte dei graffitari sui vagoni delle metropolitane. Di corsa s’immerge, anche lui, negli intestini della città e inventa il suo linguaggio di figurine, cagnetti e dischi volanti che, se un giorno gente verde con il naso a trombetta davvero arriverà dallo spazio, avrà un gran daffare nel decifrare questo alfabeto durato, solo, una brevissima stagione. Scivolando fra un break dancer e un homeless, immancabili personaggi della commedia urbana di quegli anni, Keith scende sottoterra a sfornare ogni giorno nuovi disegni. La polizia gli fa la multa quando lo becca, a volte lo porta persino in manette al commissariato, ma i suoi scarabocchi, fatti su spazi vuoti destinati alla pubblicità, sono innocui, la gente ne va pazza. Gli stessi poliziotti devono del resto confessare di essere dei fan di quel giovane, improbabile, vandalo. DAL METR AL MOMA Nell’underground ”creativo” Keith Haring conosce l’altro prodigio di quegli anni, Jean-Michel Basquiat, che la droga si porterà via prima di lui. Entrambi diventeranno due miti della vita notturna niuorchese e del mondo dell’arte che, davanti alla potenza del loro talento, perderà completamente la testa. Il critico conservatore della rivista Time, Robert Hughes, grande scrittore d’arte che non capisce però una mazza della contemporaneità, disprezza questi ragazzotti arrivati alla ribalta delle cronache e del mercato dal nulla. "Avranno vita breve", preannuncia, e il destino lo aiuterà in questa macabra profezia. La carriera e la vita di Basquiat e Haring bruciano come due bengala troppo velocemente per fare un solco nella storia. Più che meteore sono due stelle cadenti, strisce di luce che si trascinano dietro molti desideri e tanta malinconia. Il sistema dell’arte usa e abusa. Keith Haring, e gli altri graffitari, vengono risucchiati fuori dalle griglie del metrò. La loro arte, nata per viaggiare sui treni, nel buio dei tunnel, muore, come un Dracula dell’immaginazione, sotto i riflettori di gallerie e musei. Haring, pur dichiarando che la metropolitana era il suo studio e galleria naturale, nel 1982 cede al richiamo delle sirene dell’economy, entrando a far parte della scuderia di Tony Shafrazi, iraniano. Chi meglio di Shafrazi avrebbe potuto capire, e vendere, l’arte di Haring, lui che nel 1974, ancora artista, aveva avuto il coraggio di sfregiare, con una bomboletta spray rossa, nientepopodimeno che il Guernica di Picasso, in mostra al MoMa di New York? Sul capolavoro del grande Pablo, Shafrazi aveva scritto "Kill all lies", uccidi tutte le bugie, una protesta, nemmeno tanto strampalata, contro l’assoluzione dei marines che si erano divertiti massacrando i vietnamiti nel villaggio My Lai. Ma i tempi ora, nel riflusso reaganiano, sono diversi, le bugie servono a far soldi, il vandalo pentito capisce che i quadri, compresi quelli di Keith Haring, al MoMa è meglio venderli. L’ARTE PER TUTTI Entrato nel circuito ufficiale delle gallerie, la carriera e i prezzi di Keith Haring prendono il volo: non ci sarà un museo nel mondo che non vorrà una mostra con il segno del suo pennarello che, come il terribile virus di quegli anni, entra dappertutto, copre tutte le superfici che incontra, diventa inconfondibile confondendosi con tutto. Tutti vogliono Haring, ma i prezzi di Haring non sono per tutti. Allora, nel 1986, nasce l’Haring per tutti: il Pop Shop, su Lafayette Street, una piccola caverna dove si vendono magliette, borse, tazze, cose, tutte nel segno di Keith. Gli intellettuali urlano allo scandalo, il grafomane si è venduto l’anima. Ma per Haring il negozio non è altro che l’estensione della metropolitana, accessibile, libero, economico, temporaneo, anche se durerà più di lui. Ha chiuso, infatti, solo un mese fa, ma già da tempo era diventato una patetica destinazione per turisti in ritardo. NELLE SCUOLE, COI BAMBINI Nel 1988 Keith Haring scopre di essere Hiv positivo. Non si sorprende. Ha già visto i suoi migliori amici andare via, in questa guerra del corpo contro il piacere che, come tutte le guerre, ammazzerà più figli che padri. Il tempo regolamentare sta per scadere, Keith Haring si butta a capofitto nella sua arte, trasformandola in strumento di comunicazione e prevenzione. Il suo motto ora è Safe Sex, sesso sicuro. Viaggia in lungo e in largo per tutti gli Stati Uniti, visitando le scuole pubbliche d’America. Insieme ai bambini disegna enormi murales, con le sue figurine anonime, sempre un po’ arrapate, che si masturbano. La sua calligrafia che i meno entusiasti dicono essere un cocktail di arte aborigena, indiana, maya, cinese, Warhol, Lichtenstein e Sol Lewitt è diventata uno dei simboli e loghi dell’arte contemporanea. Ha segnato un’epoca, uno stile di vita, un mondo scritto a una dimensione che ha evitato la profondità della memoria. Come tutte le cose buone ma troppo fresche, tipo la mozzarella di bufala, anche il linguaggio di Keith Haring non durerà molto. Anche se quasi tutti oggi conoscono Keith Haring, pochi sanno che, come un flash, solo per un attimo, è riuscito a illuminare un centimetro quadrato della storia dell’arte. La profezia di quel trombone di Robert Hughes si è avverata, ma il suo grossolano errore è stato quello di disprezzarlo nel momento della sua apparizione, d’ignorarlo come testimone, perfetta misura, della tragedia che ha divorato una generazione. Morto giovanotto, Keith Haring ha, in ogni caso, trovato la sua immortalità rimanendo, nel ricordo di tutti noi, come un dolce, tristissimo, fumetto. Francesco Bonami