Varie, 7 ottobre 2005
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Zaourar Hocine
• Birmandreis (Algeria) 18 dicembre 1952. Fotografo • «L’Algeria ha, con un referendum plebiscitario, [...] perdonato tutti: islamisti emendati da un ambiguo addio alle armi ma che hanno praticato lo sbrigativo principio del massacro di massa; militari che hanno approfittato della calamità per arricchirsi e eliminare chi rifiutava di obbedire. Ha perdonato tutto, non una foto e il suo autore. Il 23 settembre 1997 mentre infuriava il carnaio, Hocine Zaourar, un berbero svelto e intelligente, con la macchina fotografica e il cartellino dell’agenzia France Presse si aggirava nell’ospedale di Zmirli, vicino ad Algeri. Dopo i grandi massacri degli islamisti del Gia andava sempre lì, crocevia dello strazio da impressionare su pellicola. Di aver immortalato la tragedia di un popolo si accorse quando, più tardi, vide la foto stampata: una donna appoggiata a un muro bianco, il capo piegato, che urlava, mentre una più anziana cercava di consolarla. Era la versione fotografica della Passione, da Antigone alle Madonne barocche, la pietà rinchiusa in un riquadro a colori comemai nessun articolo o libro aveva saputo sintetizzare. La donna aveva perso marito e figli piccoli a Bentalha, 200 vittime del fanatismo, una delle tappe più vergognose di un secolo insanguinato. Zaourar quel giorno è diventato famoso, la sua foto è finita su innumerevoli libri, giornali, riviste, è stata esposta a mostre, si è trasformata perfino in una statua e in un film. Ma è stato l’inizio della sua sfortuna. Il regime algerino, la spiccia democrazia plebiscitaria di Bouteflika e dei suoi generali, non lo ha perdonato. A ragione: che cosa c’entra quel grido di dolore con la nuova Algeria il cui motto, seppelliti i morti e i dossier scomodi della guerra sporca, è arricchitevi se potete, ma soprattutto state zitti e dimenticate? Quella donna che grida la colpa di essere sopravvissuta dà una immagine negativa del paese, è “oggettivamente”, micidiale avverbio che ha liquidato generazioni di testimoni scomodi, un contributo alla causa dei terroristi. Hanno lavorato sodo con la calunnia. I giornali governativi hanno insinuato che la donna non aveva perso i figli nella strage, solo lontani parenti. Insomma la tragedia era solo una mezza tragedia. E se un dettaglio non torna si può pensare che tutto sia falso, il solito fotomontaggio truffaldino, fatto in studio. Poi qualcuno ha indotto la Madonna di Bentalha a denunciare il fotografo per diffamazione e furto di immagine. Cinque anni di calvario giudiziario ci sono voluti per uscire da questa imboscata. Intanto a Zaourar hanno ritirato la tessera professionale. Non può lavorare. Sua moglie, giornalista al “Matin”, un quotidiano disobbediente e infatti tolto dalle edicole, è stata condannata a due mesi di prigione: diffamazione di uno degli uomini di affari più vicini al presidente. Sono i consueti metodi con cui i regimi autoritari picchiano sui crani per snebbiare i cervelli. Con successo. La France Presse ha cominciato a considerare Zaourar non più un eroe del fotogiornalismo fortunatamente a libro paga, ma un caso complicato, quasi una seccatura. Senza tessera non può lavorare in Algeria. Che farne? Ha un passaporto complicato, non parla bene l’inglese. E poi, a pensarci bene, ha un carattere “difficile”, è intransigente, i colleghi lo evitano. Dopo 12 anni di foto da prima pagina, non lavora più, è come cieco. Gli propongono un reportage in Iraq. Proprio mentre i ribelli uccidono un ostaggio algerino, per tradimento con l’Occidente. Gli annunciano che lo pagheranno con il salario algerino e che deve dar prova di saperci fare, gli impongono uno stage di “aggiornamento” in Francia. Umiliato, ha detto no» (Domenico Quirico, “La Stampa” 7/10/2005).