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 2005  settembre 27 Martedì calendario

Haring, l’impero dei segni. Il Messaggero 27/09/2005. Milano. Ha imposto un impero di segni, uno stile di vita, un linguaggio

Haring, l’impero dei segni. Il Messaggero 27/09/2005. Milano. Ha imposto un impero di segni, uno stile di vita, un linguaggio. Voleva essere più pop dei Pop, Keith Haring, e c’è riuscito: immediato, ubiquitario, addirittura gratuito, a differenza di Warhol che negli anni Settanta era ormai entrato nell’Olimpo delle icone ufficiali e nel giro di un mercato multimiliardario. Voleva ”diffondere energia” guidato dall’idea semplice e rivoluzionaria di all over, secondo la quale «l’arte devepoter essere per tutti e dappertutto». Lo ha fatto conquistando i muri e la metropolitana di New York, che sono diventati il suo Louvre, il suo Metropolitan Museum, il suo MoMa. Sosteneva:«A me interessa che i miei disegni possano estendersi su qualsiasi superficie, come i geroglifici egizi, i pittogrammi maya o indios». Così diventò il leader carismatico e indiscusso della graffiti art, di cui si era già occupato nel’75 Norman Mailer in un saggio divenuto subito cult, The Faith of Graffiti: un’arte di matrice negra e proletaria, che esprimeva le tensioni e l’ansia di libertà del ”terzo mondo” newyorkese lasciando segni nei luoghi pubblici più frequentati e umili. Keith era nato in Pennsylvania (come Andy!) nel 1958, l’anno in cui fu lanciato il primo uomo nello spazio. Come tutti i ragazzi della sua generazione, era cresciuto guardando la televisione, stregato dalle magie del piccolo schermo (che è infatti tra i soggetti privilegiati, con le astronavi, dei primi celebri subway drawings), nel mondo della guerra fredda e della minaccia nucleare, degli hippies e della contestazione, del Vietnam e dei computer che in Americacominciavanoa cambiare la società, creando un nuovo sistema di interrelazioni planetarie. Era, insomma, un figlio del Villaggio Globale teorizzato da Marshall Mc Luhan, come prova questo scintillante The Keith Haring Show alla Triennale di Milano. Non è certo un caso che i suoi segni, la sua arte, siano un crocevia in cui si ritrovano i cartoon di Walt Disney e Warhol, i ritmi hip hop e i film di Spielberg con il quale aveva in comune il culto dell’infanzia (uno dei capolavori di Keith, The Radiant Child, il ”bambino radioso”, forse la sua icona-simbolo, è stato creato nello stesso anno di E. T.), la scena postpunk e l’influenza di un primitivismo pittorico rappresentato dalle culture africane, asiatiche e precolombiane. Haring era sinceramente convinto come William Burroughs - uno dei suoi pochi e veri maestri - che l’arte contemporanea dovesse essere multimediale e multietnica. Non accettava ”confini”, gabbie, limitazioni (la sua ultima opera, un murale dipinto a Pisa nel ’90, si chiama significativamente Tuttomondo ). Per questo amava New York appassionatamente. Diceva: «La amo perché amo la gente. E quando mi avvicino al decimo giorno di lontananza, la desidero terribilmente, mi mancano le sue energie. Non potrei vivere in nessun altro posto. A New York avverto una straordinaria sensazione di libertà. C’è molta follia, forti e irriducibili contrasti». Ai suoi occhi, giustamente, New York era la capitale del melting pot, una terra-di-nessuno e la città di tutti, un laboratorio culturale e umano tanto inesauribile quanto fonte di continue sorprese. La Grande Mela esaltava il suo spirito comunitario, probabilmente il legame più forte e profondo che Keith aveva con i graffitisti. Altrimenti, ha ragione Gianni Mercurio a sottolineare nel catalogo della mostra edito da Skira l ’impossibilità di identificare Haring semplicemente con il graffitismo. Era anche quello, ma è stato ed è molto di più. Era, al pari di Basquiat, un artista raffinato, complesso e tutt’altro che naïf. Ma, a differenza di Basquiat, ha saputo rappresentare un ’epoca, darle un ’immagine, catturarne l’anima. Lo ha fatto con un tratto inconfondibile, giocoso e trasgressivo (il sesso è un tema onnipresente nei suoi lavori) che comunica una travolgente energia. Omini, animali, simboli, tutto è in movimento nelle sue opere, in un’arte che potremmo definire elettromagnetica: capace di sprigionare una irrefrenabile energia e di essere misteriosamente attraente. Fu breve la vita felice di Keith Haring, stroncato dall’Aids a soli 31 anni. Ma tre lustri dopo il suo mito è davvero all over, più vivo e forte che mai. Massimo Di Forti