Il Messaggero 03/10/2005, pag.7 Roberto Gervaso, 3 ottobre 2005
Panfiluccio e Giovannone. Il Messaggero 03/10/2005. Caro Signor Gervaso, mi è capitato in questi giorni fra le mani un vecchio libro, riedito da Ponte alle Grazie, che sicuramente avrà letto e che mi ha confermato quanto acuto e brillante fosse il suo autore
Panfiluccio e Giovannone. Il Messaggero 03/10/2005. Caro Signor Gervaso, mi è capitato in questi giorni fra le mani un vecchio libro, riedito da Ponte alle Grazie, che sicuramente avrà letto e che mi ha confermato quanto acuto e brillante fosse il suo autore. Il libro s’intitola "Democrazie mafiose" e l’autore Panfilo Gentile. Cominciai a leggerlo e ad apprezzarlo nei primi anni Cinquanta (ne ho quasi novanta), quando, sulla prima pagina del ”Corriere della Sera” (quanto rimpiango quel Corriere), commentava da par suoi fatti di politica interna. Di lui, purtroppo, si erano perse le tracce e non mi è difficile capirne il motivo. Era un uomo di destra, una destra colta e disincantata, ma che non sbagliava un giudizio. Non le chiedo una recensione del libro, che sto avidamente leggendo, ma un ritratto del personaggio, di cui non so quasi nulla. Umberto Puricelli - Milano Caro Amico, Panfilo Gentile (Panfiluccio per gli amici, e io, a dispetto della giovane età, ero uno di questi) è stato l’uomo più intelligente, più spiritoso, più colto, più spregiudicato, più eccentrico, più libertino che abbia conosciuto (e ne ho conosciuti tanti). Amava le donne, i cani, i cavalli, la filosofia, la musica leggera e il calcio. Aveva imparato il tedesco per leggere in quella lingua, ostica e problematica, Hegel. Sapeva a memoria e canticchiava le canzoni di Rita Pavone, e di Helenio Herrera, il suo allenatore preferito, conosceva vita, morte e miracoli, anche fuori dai campi di gioco e dagli stadi. A settant’anni fece ciò che tutti, a quell’età, dovrebbero fare: per paura di ammalarsi si mise a letto. Quando Montanelli mi portò da lui, in via Lazio 9, all’angolo con via Veneto, Panfiluccio, assistito da Roberta, la sua seconda moglie, affettuosa, bizzarra e piena di verve, ci ricevette in un’immensa e disadorna stanza. Pochissimi mobili: un comodino e il letto del Professore, un paio di vecchie poltrone stinte e lise e quattro traballanti sedie per gli ospiti. Sempre gli stessi: oltre a me e a Montanelli, Manlio Lupinacci, inveterato donnaiolo, Remigio Paone, l’impresario di Wanda Osiris, cognato di Enrico Cuccia, e Giuseppe Saragat, padre-padrone del partito socialdemocratico e poi ministro degli Esteri e Capo dello Stato. La casa veniva sottoposta a periodici pignoramenti dagli ufficiali giudiziari, sollecitati dai creditori che Panfiluccio non pagava, investendo i propri guadagni nelle corse dei cavalli, di cui era un onnisciente, autorevole esperto. Il che non gli impediva di sbagliare i pronostici e di rimetterci un mucchio di quattrini. A lui bastavano un letto per sé e per Roberta e le sedie per gli amici. Sotto il letto, accanto al pappagallo e alla padella, una fornitissima cambusa: i formaggi, le salsicce, le uova di giornata che Saragat gli mandava da Castelporziano, e i pacchi dono di Paolo Bonomi, onnipotente dominus della Coldiretti, zeppi di caciocavalli, soppressate, riso, pasta, pelati e vini doc. Per la casa scorrazzava un labrador di ventidue anni (così almeno garantiva Panfiluccio), che il tempo aveva asciugato e rinsecchito, trasformandolo in una specie di volpino. Era ancora vivace e quando un ospite, specialmente se creditore, bussava all’uscio abbaiava come un cucciolo. Nel 1968 Giovanni Spadolini (per gli amici, Giovannone) diventò direttore del ”Corriere della Sera” sulle spalle di Montanelli, il suo più prestigioso e pugnace sponsor, e contro la volontà di Giulia Maria Crespi, first lady del progressismo salottiero meneghino, altera vestale di quel radicalismo chic che, nei formidabili anni immortalati dal desaparecido Capanna, strizzava l’occhio ai contestatori di una società e di una borghesia di cui i proprietari del ”Corriere della Sera” erano stati per decenni i solidi e discreti campioni. Il futuro padre della Patria, assunte le redini del destriero di via Solferino, mi chiese di accompagnarlo da Panfiluccio, la sua antitesi umana, caratteriale e, in fondo, anche ideologica. Tanto aulico, ampolloso, accademico Spadolini quanto scettico, scanzonato, gaudente Gentile. Ci venne ad aprire Roberta, seguita dal volpino che cominciò ad abbaiare con tanto innocuo accanimento che Giovannone, terrorizzato, infilò di corsa le scale e in pochi balzi, lui così atletico, riguadagnò il portone di via Lazio, urlando: «Se non chiudono il cane in un’altra stanza, non entro in quella del Professore». Roberta prese in braccio il quattrozampe e lo ingabbiò in cucina. Solo allora, tranquillizzato dalla scomparsa dell’ex labrador, il futuro ministro della Difesa varcò trionfante e benedicente la camera da letto di Panfiluccio, che nel 1970 lascerà il ”Corriere della Sera”. Con gran soddisfazione di quel sinistrume spocchioso e dovizioso, salottiero e barricadiero che è stato, ed è, la peggior peste bubbonica della nostra società. Roberto Gervaso