La Repubblica 30/09/2005, pag.58 Simonetta Fiori, 30 settembre 2005
Un club di liberali progressisti e libertini. La Repubblica 30/09/2005.Al principio dell´Espresso, nella primavera del 1955, ci furono due minuti di silenzio
Un club di liberali progressisti e libertini. La Repubblica 30/09/2005.Al principio dell´Espresso, nella primavera del 1955, ci furono due minuti di silenzio. «Però parvero lunghi un secolo», racconta Eugenio Scalfari, allora poco più che trentenne. «Adriano Olivetti si raccolse in silenzio, senza staccarci gli occhi di dosso. Poi cominciò un interrogatorio serrato, fin nei dettagli più minuti». Al fianco di Scalfari sedeva Arrigo Benedetti, di quattordici anni più vecchio: erano a Ivrea per presentare il progetto del nuovo giornale. Il sodalizio con Olivetti sarebbe finito l´anno successivo. Ma intanto nell´ottobre la nave era varata. Perché proprio Olivetti? Era molto diverso da voi. «Adriano era uno spirito religioso quanto noi eravamo laici e volterriani. Inseguiva indefinite teosofie. Ma era un industriale libero, un grande imprenditore che non condivideva in nulla la linea della Confindustria». Allora perché poco dopo vi lasciò? «Non era riuscito a ottenere il nostro appoggio al movimento politico di Comunità. Eravamo liberali di sinistra, proprio in quei mesi lavoravamo alla fondazione del partito radicale. Per un po´ Arrigo e io cercammo di accontentarlo, facendo scrivere Geno Pampaloni, "quello del Gesù facile", come lo chiamavamo. Poi arrivarono i guai». La Confindustria tentò di boicottarvi nella pubblicità. «Le inserzioni, in realtà, continuarono ad arrivare: gli imprenditori guardano al mercato e l´Espresso era uno strumento commercialmente appetibile. Ma Adriano rischiava di avere solo problemi: le aziende furono invitate a boicottare anche le sue macchine da scrivere. Con la consueta signorilità, lasciò il giornale: regalando gran parte delle azioni a Carlo Caracciolo, del cui padre Filippo era stato grande amico». Eravate editori puri. Una rottura nell´informazione degli anni Cinquanta, politicamente ed economicamente ossequiosa. L´autonomia fu rivendicata fin dal primo numero dell´Espresso. «Benedetti ancor più di Pannunzio contribuì a far nascere un´opinione pubblica come forza di controllo rispetto al potere. Tutto il gruppo che gravitava intorno al giornale era l´espressione di una struttura di opinione fondata su una rete di saldi convincimenti, che poi erano quelli liberali, progressisti e libertini». Costituivate anche un club, con alcune abitudini mondane. «Sì, la nostra vita notturna si svolgeva in via Veneto, tra il caffè Rosati e i tavolini del Golden Gate. I più eccentrici si spingevano fino allo Strega. In realtà il club dell´Espresso germinava da un gruppo più antico, quello del Mondo, con alla testa Mario Pannunzio e Franco Libonati. Veniva anche Moravia, più raramente Elsa Morante. Tra le dieci e le undici arrivavano Brancati, Flaiano, Gorresio. Io ero il più giovane, però legatissimo ai "vecchi": è sempre stata una mia strana caratteristica». Che facevate? «Non parlavamo di niente, ma lo facevamo con gran divertimento. Scherzi, boutade, motteggi. Ciascuno manifestava le proprie idiosincrasie, stilando liste di proscrizione feroci. Contro gli amici più che i nemici. Eravamo liberali, tra Croce e Salvemini. Il socialismo alla Pellizza da Volpedo ci metteva tristezza». Vitelloni con un pizzico di snob. Di solito longilinei. E benestanti. Amanti dei lini bianchi d´estate, delle flanelle chiare d´inverno. Così descrivi il club nell´autobiografia. «Sì, ne ho scritto in modo autoironico in La sera andavamo in via Veneto. Ci ispiravamo ai personaggi di Tender is the night. Da Fitzgerald mutuavamo anche un certo velleitarismo, oltre l´understatement: i temi gravi trattati con leggerezza». Ma Benedetti non era longilineo. «Arrigo non veniva a cena con noi. Era un puritano, non gli piacevano questi aspetti di vitellonismo». Per questo lo escludevate dalle vostre immaginarie vacanze a Marienbad? «Benedetti aveva alcune fobie. Non amava essere preso neppure sottobraccio. Agli inizi dell´Espresso, nacque in redazione una straordinaria storia d´amore tra due colleghi: lui lasciò sua moglie, e per qualche giorno i due scomparvero. Lei prima di partire aveva consegnato un servizio sul Gattopardo. Arrigo glielo pubblicò col titolo: L´introvabile Donnafugata. Al loro ritorno fu implacabile: voi qui non potete restare! Furono trasferiti a Milano». I titoli chi li faceva? Alcuni hanno fatto storia: Capitale corrotta nazione infetta, L´asino nella bottiglia. Era la stagione delle grandi campagne: contro il "sacco di Roma", contro la sofisticazione alimentare. «Spesso li faceva Arrigo da solo. Benedetti era un "direttore-grafico", come lo sono stato poi io. La vera rivoluzione dell´Espresso fu prima nella veste editoriale che nei contenuti: il formato lenzuolo, la scelta del carattere "bastoni"». In redazione c´erano gelosie? «No, sarebbero arrivate più tardi. Io di fatto ero il vicedirettore, facevo il giornale con Arrigo, Carlo Gregoretti, che l´aiutava a impaginare, e il caporedattore: al principio Antonio Gambino, poi Gianni Corbi. Gli altri erano pochi ed eccellenti giornalisti - da Manlio Cancogni a Fabrizio Dentice, da Vittorio Gorresio a Enrico Rossetti, da Mino Guerrini a Sergio Saviane, da Marialivia Serini a Giancarlo Fusco, più tardi Camilla Cederna, Sandro Viola, Andrea Barbato, Livio Zanetti, Nello Ajello. Tutti con lo sguardo fisso sulla direzione, quasi ipnotizzati: un po´ come in Prova d´orchestra, il violino non scruta cosa fa la tromba». Poi la sera tutti in Via Veneto. «A un certo punto migrammo in piazza del Popolo. Via Veneto cominciava a cambiare, non era più la Dolce vita. A dividerci fisicamente in due rivoli fu il duello per un premio Strega tra Sandro De Feo ed Ercole Patti. Tentammo di persuadere Ercolino a ritirarsi. Il modo fu bizzarro: "Pannunzio è amico del ministro degli Esteri, potrebbe farti mandare in Turchia a ricoprire la sede vacante dell´ambasciata. così dolce quell´affaccio sul Bosforo...". Lui reagiva debolmente, un po´ ci assecondava». Però non cedette. «De Feo decise di traslocare da Canova. Alcuni di noi lo seguirono in Piazza del Popolo. Con una deviazione dalle parti di via Sistina, dove c´era una piano bar animato dal tapeur Amerigo. Qualche tempo dopo Amerigo avrebbe aperto un suo locale in via Brunetti, vicino alla Passeggiata di Ripetta. Una sera Furio Colombo ci impedì di entrare. "Hanno licenziato un cameriere nero", scandì con furore. Non tutti fummo sensibili alla causa». Vi piaceva ballare? «Ad alcuni sì. Pannunzio eccelleva nel valzer e nel tango, ma senza contorsioni di gamba. Io ballavo bene il charleston, Fusco faceva di tutto. Arrigo no, tranne che in occasioni speciali era refrattario alla danza». Non apprezzava i vostri riti festaioli. «Nel 1962 organizzammo un convegno con l´Economist. Il tema era la partnership atlantica e vi parteciparono le delegazioni dei due settimanali, compreso il direttore paraplegico della gloriosa testata inglese. Nella nostra figuravano personalità come Guido Carli, Riccardo Lombardi, Niccolò Carandini. La sera offrimmo un grande ricevimento alla Casina Valadier, al quale partecipò mezzo governo, intellettuali, uomini d´affari. C´era anche Gianni Agnelli». Benedetti trovò da ridire? «No, per l´Espresso fu una consacrazione. Il problema si pose la sera dopo. I colleghi inglesi volevano divertirsi, così li portammo nel piano bar di via Sistina. Arrigo no, andò a cena fuori con il direttore in carrozzella. Fu la volta che Sandro Viola, assai spiritoso ma non di vertiginosa statura, si produsse in un lento straordinario: avvistata una creola altissima, salì sulla sedia e la invitò a ballare. Arrigo lo venne a sapere. Mi chiamò furibondo. Poi formalizzò le sue scuse al direttore dell´Economist. Il quale, immagino, fu assalito da stupore: cosa c´era da scusarsi?». anche per questo che cinque anni dopo, nel momento della rottura, ti scrisse una lettera accusando te e Viola di fatuità? «Sì, forse c´era anche questo. Ma la storia è molto più seria. Quando nell´autunno del 1962 mi comunicò la decisione di ritirarsi nella sua casa di campagna a Saltocchio, a un passo da Lucca, opposi una ferma resistenza». Perché? Gli saresti succeduto nella direzione. «Ma non avevo questa ambizione. Non perché temessi di essere incapace, ma Arrigo era il mio fratello maggiore, il maestro di giornalismo. Tentai di dissuaderlo: io sono il tuo vicedirettore, so qual è il tuo modo di fare il giornale. Posso continuare da solo, però tu mantieni il titolo di direttore. Perché - se invece il direttore lo faccio io - non potrà più essere così. Terrò conto di quel che dici, ma il giornale sarà fatto secondo i miei pensieri e i miei istinti». Benedetti preferì lasciare. «Per due ragioni, ma ne rese pubblica solo una: tornare a scrivere romanzi». L´altra? «Era fragile di nervi. Non poteva avere più di due persone nella stanza. Lo proteggevamo, ma per lui dirigere era diventato pesante». Col tempo si pentì d´aver lasciato. «Cominciai a scontentarlo fin da subito, aprendo le pagine culturali al Gruppo 63. Più tardi anche la linea politica subì una modifica: quell´avvicinamento al Psi che produsse la rottura con Pannunzio. Al Pci, poi, guardavo con occhio diverso da loro: pur mantenendo un fermo anticomunismo sul versante sovietico, i militanti di quel partito mi apparvero non più avversari, ma interlocutori». Ti accusarono di essere uscito dalla tradizione del Mondo. «Sì, il giornale chiuse nel ´66 per sfinimento. Anche l´inchiesta sul piano Solo, uscita l´anno dopo sull´Espresso, fu digerita da Arrigo a denti stretti. La giudicò eccessiva. Lui e Pannunzio mi volevano far fuori dalla direzione, mettendo al mio posto Nicola Adelfi». Con la guerra dei Sei Giorni scoppiò la crisi. «Arrigo contestò la nostra politica estera, critica verso Israele. Mi scrisse una lettera assai dura, alla quale risposi con altrettanta severità. Libero lui di dissentire dalla linea del giornale, ma libero il direttore di dire la sua». Ne parlasti con Caracciolo? «Mi incoraggiò ad andare avanti. Benedetti scrisse un commento in cui sosteneva che Israele rappresentava una civiltà superiore. Io replicai accanto, con il fondo I veri amici di Israele». Fu la rottura. «Sì, tremenda. Dolorosissima. Come lo era stata quella con Pannunzio, il mio padre spirituale. Ci ritrovammo alcuni anni più tardi. S´era ammalato gravemente, lo andai a trovare. Ma il rapporto non fu più lo stesso». Simonetta Fiori