La Stampa 03/10/2005, pag.10 Andrea Scanzi, 3 ottobre 2005
Venticinque anni fa l’addio al mito. La Stampa 03/10/2005. Era il 2 ottobre 1980, quando Muhammad Ali cessò di essere ciò che era
Venticinque anni fa l’addio al mito. La Stampa 03/10/2005. Era il 2 ottobre 1980, quando Muhammad Ali cessò di essere ciò che era. Venticinque anni fa. Al Ceasar’s Palace di Las Vegas, Nevada. Sedici mesi dopo il suo ritiro, tornò sul ring. Inseguiva per la quarta volta il titolo dei pesi massimi. A tentarlo furono i soldi di Don King. «Non crediate che continuerò al punto da smettere col naso spappolato e il cervello in poltiglia», ripeteva agli inizi. Aveva cambiato idea. Dall’altra parte c’era Larry Holmes. Il campione, al suo massimo. Sei anni prima, Holmes era stato uno degli sparring partner di Ali nello Zaire, prima della sfida con George Foreman. Ali si presentò grasso. Anche la parlantina era invecchiata. All’Astoria Hotel di New York, nel 1974, disse in conferenza stampa: «Foreman è lento, una mummia. Non mi fa paura. Ho fatto a botte con un coccodrillo per prepararmi a questo incontro. Ho lottato con una balena, ammanettato i lampi, sbattuto in galera i tuoni. Forte, sono troppo forte. E veloce, ve-lo-ce. Ieri sera, per spegnere la luce in camera mia, ho premuto l’interruttore, prima che fosse buio ero già a letto». Nell’80 fu più sobrio: «Non è Liston, non è Frazier, non è Foreman. E’ solo Larry Holmes e non è nessuno». A Las Vegas, 25 anni fa, l’angolo di Ali gettò la spugna tra 10a e 11a ripresa. Dalla seconda fu un martirio. In una delle poche battute ispirate della sua vita, Sylvester Stallone fotografò così quell’incontro: «Sembrava di assistere all’autopsia di un uomo vivo». Sports Illustrated sparò in copertina il volto tumefatto dello sfidante. Il titolo era: «The Last Urrah». Nel suo record di 56 vittorie in 61 incontri, resta l’unica sconfitta per ko subita da Ali. Che, nel 1981, sfidò Trevor Berbick. Perse ai punti. Smise. A 39 anni. Era stato sempre Don King, sette anni prima, a organizzare «Rumble in the jungle» a Kinshasa con Foreman, così come «Thrilla in Manila» nel 1975. Il terzo incontro tra Ali e Joe Frazier. Vinse il primo. «Quello che avete appena visto è quanto di più vicino alla morte», riassunse Ali. Fu allora che il suo medico, Ferdie Pacheco, gli consigliò di smettere. Continuando, avrebbe rischiato danni permanenti. Nessuno lo ascoltò. Quando Ali si rifiutò di arruolarsi per il Vietnam, aveva 24 anni ed era imbattibile. Combatteva come gli suggeriva il suo guru «Bundini»: pungendo come un’ape, fluttuando come una farfalla. Bello, veloce, sfrontato. Jimmy Cannon, amico di Hemingway e biografo di Joe Louis, lo aveva definito «uno scherzo della natura, un peso gallo di 90 chili». E invece Ali sconfisse Sonny Liston. Due volte. La conversione all’Islam lo aveva reso ulteriormente impopolare in un’America profondamente razzista. Dietro a lui c’era la figura ingombrante del «profeta» Elijah Muhammad, in grado di manovrarne le scelte, come quando lo portò a scontrarsi col suo migliore amico, Malcolm X. Ali era «la copia carbone di un razzista bianco», secondo le parole di uno dei suoi avversari, «il nero buono» Floyd Patterson. Credeva davvero, come insegnavano le teorie di W.D. Fard, che il mondo era nato 6600 anni prima da «un bambino nero dalla testa grossa, Yacub», il quale - esiliato nel Mar Egeo - aveva creato «una razza di diavoli». I diavoli erano i bianchi. Quando Ali disse no al Vietnam, inizialmente fu per istinto. Rifiutò la leva per proteggersi. Poi, durante un’intervista telefonica, indovinò la frase giusta: «Ragazzi, io non ho mai avuto niente a che ridire con quei vietcong». Eroe per i pacifisti e disertore per il governo. Nel 1967 elaborò politicamente la sua scelta: «Perché dovrei sparare a gente lontana per conto di un governo che tratta i "negri" di Louisville come fossero cani? Io partirei se questo significasse portare libertà e uguaglianza a milioni di persone, ma non è così». Rischiò il carcere, tornò povero, perse ogni titolo e gli anni migliori. Inattivo per 43 mesi. Quando rientrò, nel 1970, era cambiato. «Dopo la squalifica - dirà Pacheco - Ali scoprì qualcosa di molto bello e molto brutto. Molto bello, perché fini per riportarlo al titolo; molto brutto, perché portò al danno fisico: scoprì che poteva incassare un colpo». Resosi conto di non essere più veloce, Ali trasformò il limite in pregio. Si fece, da pugile fluttuante, instancabile incassatore. La vittoria su Foreman, raccontata in Quando eravamo re, nacque così. Il «rope-a-dope», l’aggrapparsi alle corde aspettando la grandine dell’avversario, fu una esasperazione masochistica del concetto di maturità. Foreman, «la quintessenza della negritudine» per Norman Mailer, aveva pugni che in allenamento sfondavano il «sacco». Ora il sacco era Ali. Foreman colpiva, schiumava rabbia, e Ali gli si avvicinava all’orecchio: «George, che stai facendo? Non fai male, è tutto qui?». All’ottava ripresa Foreman non si muoveva più. E Ali portò il colpo vincente. Poi, rimase a guardare. Per non rovinare l’estetica di un corpo che cade. Ali ha vissuto molte vite. Ape, farfalla, razzista. Ribelle, stoico, martire. Malato. Ieri era un ragazzino superbo, oggi è un uomo di 63 anni che sfida la nemesi di mani diversamente rapide. E ripete all’America che l’Islam non è il male. Ha scritto Joyce Carol Oates: «Come lo scrittore che maturando impara a sostituire le incandescenti e impetuose energie giovanili con quella che va sotto il nome di tecnica, Ali avrebbe dovuto calarsi nel suo essere fisico e andare per la prima volta incontro al castigo». La sua mutazione fu skakesperiana. «Mentre nella scapestrata giovinezza Ali era una splendida figura che combinava l’arroganza di Hotspur e la noncuranza del folle di Re Lear, in quegli oscuri, meditabondi e sempre più ostinati incontri divenne l’equivalente più prossimo allo stesso Re Lear presente nella boxe». Quei match cupi e terrificanti furono prove di insondabile coraggio e resistenza umana. Assurte a livelli di tragedia classica. A modo suo, il più estremo, Re Lear abdicava. Andrea Scanzi