Corriere della Sera 27/09/2005, pag.21 Marco Imarisio, 27 settembre 2005
E Anina disse all’amica: sto con Paolo, è l’uomo giusto. Corriere della Sera 27/09/2005. Mondovì (Cuneo) – «Anina» è morta povera
E Anina disse all’amica: sto con Paolo, è l’uomo giusto. Corriere della Sera 27/09/2005. Mondovì (Cuneo) – «Anina» è morta povera. Oggi è arrivato l’estratto conto del Banco Posta di Mondovì, e il saldo dice 27 Euro. La chiamavano così, con un diminutivo, perché era piccola di statura, un metro e 61, e più piccola dei suoi 31 anni. Ana Lucia Bandeira Bezerra era una donna bambina, dicono le sue amiche studentesse. Così bambina da illudersi di aver trovato la persona giusta in Paolo Calissano, magari l’uomo capace di portarla via, dalla lap dance, dalle mani dei clienti sulle cosce, dai fine serata sempre uguali, a casa di qualcuno appena più gentile degli altri. «Domenica mi ha promesso che viene qui, così finalmente conosci uno famoso», aveva detto a Giorgia, che studia all’Istituto turistico di Mondovì. Lo conosceva da tre anni, da una settimana stavano insieme. «Il mio fidanzato», diceva, e non scherzava. So che si chiamava Ana, e che era brasiliana. L’attore che qualche anno fa era il «fidanzato delle italiane» ha fatto mettere questo a verbale. Mezza riga, non di più, a riassunto di una vita. «Anina» invece non era soltanto una nota a margine nella caduta rovinosa di un attore famoso. Aveva una storia, non facile da raccontare, come le storie di chi perde sempre, qualunque cosa faccia. Era nata il 6 marzo 1974 a San Joao de Meriti, un villaggio attaccato a Rio de Janeiro. Nella casa della sua famiglia ci sono le sbarre alle finestre, per impedire ai vicini di fregarsi la lavatrice. Era fuggita a 14 anni, per scappare al convivente della madre, che la violentava ogni sera. Era finita sui marciapiedi del lungomare di Rio. Un operaio di Livorno se n’era innamorato e l’aveva portata in Italia. Era nata subito una bambina, tre anni dopo era arrivato un maschio. Lei aveva paura, di una vita con non pochi problemi e della responsabilità dell’essere madre. Se n’era andata. Aveva risalito l’Italia a tappe, il lavoro in un night per ogni città sulla Riviera, fino a Genova, dove aveva vissuto per due anni in un albergo dei vicoli. «Era insicura, nessuno su cui contare, nemmeno se stessa, in un mondo che non era il suo». Giuseppe Roggero ha appena finito di sgomberare la casa di Ana Lucia, due locali in una vecchia casa nel centro di Mondovì. un carabiniere sospeso dal servizio, anche lui ha una storia e non di quelle giuste. Tre anni fa aveva conosciuto «Anina» al Penelope, un night che poi avrebbe cambiato nome e sarebbe diventato il Sax, ultimo domicilio lavorativo della ballerina brasiliana. «Non si faceva pagare, se è questo che tutti vogliono sapere. Ma non era capace di dire no». Si erano fidanzati. Lui l’aveva convinta a trasferirsi a Mondovì. Ana Lucia aveva smesso con la lap dance. Si era rivolta alla Man Power, una agenzia di lavoro interinale. Ne era venuto fuori un impiego alla Politec, azienda di manufatti in vetroresina. Fino a giugno, «Anina» faceva l’operaia. « stato il periodo più bello della sua vita», dice Giuseppe. Contratti quindicinali, guadagnava 900-1.000 euro al mese, «molti più di quanti ne metteva via ballando di notte». Tre mesi fa, quella vita nuova era finita all’improvviso. Il permesso di soggiorno era scaduto, e l’agenzia non le aveva potuto rinnovare il contratto. Con Giuseppe si era lasciata, ma erano rimasti amici. Per consolarla dall’addio alla fabbrica, le aveva fatto il regalo più bello. Un viaggio in Brasile, alla ricerca di una famiglia perduta 17 anni fa. I genitori pensavano che fosse morta, uccisa dal convivente della madre, a sua volta ammazzato in una faida di strada. Risalendo l’indirizzo di una zia, avevano trovato il vero padre, il muratore Reginaldo, l’unica figura sorridente della sua infanzia, che se n’era andato di casa quando lei era bambina. Ana Lucia era tornata in Italia con un sogno, uno dei tanti, mai nessuno realizzato. «Sistemare la vita del padre, che non se la passa bene», dice Giuseppe. Ogni tanto diceva anche che voleva andare a riprendersi i figli, ma poi le passava. «Viveva trascinata dalla corrente». Quindici giorni fa, senza lavoro, aveva deciso di tornare a Genova. «Faccio un po’ di soldi e ci si rivede». Aveva l’affitto da pagare. La casa sembra davvero quella di una studentessa. Appesa a un muro c’è una collezione di piccoli poster di gattini. In cucina un poster di Valentino Rossi, in camera da letto una collezione di peluche. Nell’angolo basso di una bacheca, nascosta dietro una conchiglia, c’è una piccola foto incorniciata. Una bambina bionda che ride e indica un neonato. Sono i suoi bambini perduti. Le amiche dicono che Ana Luisa era sempre allegra, «quando eri triste andavi da lei, e ti tornava il buonumore». Miriam sta piangendo davanti al calendario appeso nel salottino. Il giorno del suo diciottesimo compleanno è cerchiato, Anina aveva scritto «chiamarla, farle un regalo!!!». Gli occhi però erano tristi, sempre. Una tristezza di fondo che ha molto a che vedere con quella foto nascosta. «Viveva di questo suo senso di colpa, l’abbandono dei figli». Aveva lasciato anche la patria potestà alla famiglia del padre: «Diceva che era meglio così, con lei non avrebbero avuto un futuro. Non si sentiva all’altezza». In un armadio all’ingresso ci sono le scarpe con i tacchi alti, i vestiti della sua vita nascosta, tubini stretti e attillati. Dice Giuseppe che con le droghe aveva un atteggiamento «laico». Se c’erano, non le rifiutava. A Mondovì, ci sono queste due ragazze, Giorgia e Miriam, 17 e quasi 18 anni, che chiedono di ricordarla anche così, la casinista che ballava e saltava con loro sui materassi. «Diceva che aveva trovato l’uomo giusto, "Paolo della tivù". Sapevamo che non era vero, ma era bello sentirla piena di speranza». Giuseppe ha questa pena nel cuore, la telefonata di sabato notte alle dieci di sera: «Il mio Paolo organizza una festa, perché non vieni?». rimasto a casa. Marco Imarisio