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 2005  settembre 28 Mercoledì calendario

Molinari Arrigo

• Acri (Cosenza) 6 febbraio 1932, Genova 27 settembre 2005 (assassinato). Poliziotto. «Se non fosse stato per questa morte violenta e improvvisa, sotto la lama del coltello, nel cuore della notte, lui, il questore Arrigo Molinari, sarebbe passato per sempre agli onori della cronaca e, forse, della storia come il commissario di Ps che nella notte più tragica nei quasi sessanta anni del Festival di Sanremo aveva ”osato” spostare il corpo del cantautore Luigi Tenco, suicidatosi con una revolverata, per mostrare la scena ai fotografi e ai cronisti. Erano le tre del mattino del 27 gennaio 1967 e Tenco, trentenne e tenebroso, si era tolto la vita dopo la sua eliminazione dal concorso canoro, sparandosi alla tempia nella stanza dell’hotel Savoy. Delusione professionale? Delusione d’amore nel legame con la bella Dalida? Il giallo era nelle mani dell’Arrigo Molinari, di Acri (Cosenza), allora trentacinquenne commissario capo a Sanremo. Che giallo e che riflettori accesi su quel fatto di sangue, che portava la tragedia tra i lustrini, le paillettes, gli smoking, l´aplomb agli sgoccioli del Festival pre-Sessantotto. Per raccontare chi era il questore in pensione Molinari, un dirigente di polizia che ha cavalcato tutto quello che c’era da cavalcare nell’Italia del boom economico, del terrorismo, della P2, delle trame nere e rosse, dei Servizi Segreti e di quelli deviati, di Gladio, non si può che partire da quella scena un po granguignolesca del corpo macchiato di sangue, fatto riportare in fretta e furia in un sacco anonimo dall’obitorio della città dei Fiori, sul tappeto della stanza al terzo piano del l’hotel Savoy, la pistola posata lì di fianco, il vaso di fiori in frantumi, la lettera testamento con l’invettiva contro Io tu e le rose di Orietta Berti, passata in finale al suo posto. Molinari aveva confessato molti lustri dopo, al momento di andare in pensione, che quella ”rideposizione” del povero Tenco rispondeva alla ricerca di una verità sulla morte, celata dagli alti dirigenti della Rai dell’epoca, che non volevano gettare ombre sul giocattolo canoro, ma poi aveva lasciato in sospeso il nome del burattinaio e la verità su quello sparo. Era così il questore Molinari, irruente, generoso, molto sensibile alle luci della ribalta, ma alla fine un po’ evasivo. Si presentava come fedele servitore dello Stato, funzionario agli ordini di ministri dell´Interno di ferro come Restivo, Taviani, e poi financo Scalfaro e di capi della Polizia come il mitico Angelo Vicari o il gelido Zanda Loy. Sapeva comunicare con la stampa quando il riserbo delle Questure era come un muro. ”Scrivi, scrivi - urlava al telefono, raccontando una carica di polizia nell’epoca calda del Sessantotto - dopo i tre regolamentari squilli di tromba, indossata la fascia tricolore, il questore Arrigo Molinari ordinava la carica”. Da Sanremo lo avevano trasferito a Genova alla vigilia degli anni di piombo. E le stellette di vice questore e poi di questore a Nuoro se le sarebbe conquistate in un clima così diverso dai microfoni del Festival. C’era anche lui nella squadra mobile che catturò Lorenzo Bozano, assassino della povera Milena Sutter. E c’era lui a Forte san Giuliano, dove le Br attaccarono a fondo lo Stato sequestrando il suo amico, il giudice Mario Sossi, e in salita santa Brigida dove gli uomini della stella a cinque punte uccisero il procuratore generale Coco. Era già responsabile di una struttura di Gladio nel Nord Ovest e nelle Alpi Marittime, l’organizzazione parallela messa in piedi dal Ministero degli Interni, d’accordo con gli americani, contro il pericolo rosso. Lui ha ammesso ed anzi ci ha riso sempre su con quella leggerezza del suo carattere estroverso, perfino regalando agli amici, dopo l’assoluzione nel relativo processo, un liquore amaro, distillato nelle sue terre e chiamato, appunto ”Gladio”. Ma poi era arrivata l’ombra della P2: il suo nome nell’elenco di Licio Gelli nel maggio del 1981. E come poteva reagire l’Arrigo Molinari? Con un’alzata di spalle, una tentata sdrammatizzazione che non aveva impedito il congelamento e la carriera un po’ deviata fino alla nomina a questore nel bunker di Nuoro, dove era rientrato in scena il poliziotto donchisciottesco, capace di sfidare i padroni dell’acqua che ”minarono” di bombe la questura, fino a farlo trasferire. E alla fine già in pensione, nella sua Andora, piccolo paese turistico tra Alassio e Sanremo, la verve polemica lo aveva ripreso eccome, con la battaglia contro le banche, da avvocato agguerrito, malgrado i 73 anni e la lunga cavalcata in polizia. Gli ultimi atti sono i dossier spediti ai Pm milanesi Fiso e Perrotti che indagano sulla scalata alla Antonveneta. L’Arrigo, insomma, era ancora lì, sulla notizia» (Franco Manzitti, ”la Repubblica” 28/9/2005). «Le Br di Senzani, la P2, i terroristi dell’Oas, la gang dei Marsigliesi: amava essere al centro dell’attenzione, l’ex questore Arrigo Molinari. E questa sua voglia di raccontare qualche volta gli ha giocato brutti scherzi. Molti non lo prendevano sul serio. Lui allora esagerava un po’ e spesso finiva per confondere date e ricordi, magari infilandoci un pizzico d’invenzione, come quando sosteneva di aver fatto parte della Gladio (s’era costruito persino un sito apocrifo, nuovogladio.it, e regalava ai politici bottiglie ”amaro di Gladio”) e invece non era vero. Epperò Arrigo Molinari, funzionario di polizia di lungo corso, commissario a Sanremo per quindici anni dal 1954 al 1969, poi vicequestore a Genova e questore a Nuoro, ha diritto a una sua particina nella storia italiana. Di Molinari si è parlato a lungo per il suicidio di Luigi Tenco, nel 1967: fu lui a condurre le indagini sulla morte del cantante, scontrandosi con il perbenismo dell’epoca e con la voglia dei dirigenti del Festival di chiuderla lì senza fare troppe storie. Certo, il giovane commissario Molinari la fece grossa nel far riportare il corpo di Tenco dall’obitorio alla stanza d’albergo (’Lo feci per le esigenze dei fotografi e della televisione. C’erano Lello Bersani e Mike Bongiorno. Devo ammettere che sbagliai, fu un errore di gioventù ”) e poi, nella notte, da casa sua, nel leggere al corrispondente genovese dell’Ansa (che era Marco Benedetto, l’attuale consigliere delegato di Repubblica) l’addio del cantante. ”La verità - spiegò - è che tutti volevano sbarazzarsi del cadavere del povero Tenco e tenere nascosta la notizia della morte”. La vera storia per cui Molinari avrebbe preferito essere conosciuto, invece, a parte il brutto infortunio dell’iscrizione alla P2 che gli rovinò la carriera (’Ma io mi ero infiltrato per doveri d’ufficio”), era l’incarico di agente segreto alle dipendenze dell’Ufficio Affari Riservati. ”Ero un pupillo di Federico Umberto D’Amato”. una storia che risale ai primissimi Anni Sessanta: la sua area, tra Sanremo e Ventimiglia, era diventata la retrovia dell’Oas, il gruppo terrorista che si batteva per mantenere in mani francesi l’Algeria. Dapprima fenomeno di massa nella colonia, poi organizzazione clandestina per combattere e possibilmente uccidere De Gaulle in Francia. Con questi militanti dell’Oas, l’Italia fu ambigua: li accolse, pare su mandato della Cia, poi li scaricò. Il commissario Molinari ci stava in mezzo. ”Da Roma - raccontò - mi ordinarono di agganciarli. Divenni loro amico. Alcuni li invitai alla mia festa di nozze”. Una sera, Molinari fece anche piazzare le microspie dentro un ristorante a Pigna (Imperia) dove quelli dell’Oas si sarebbero visti a cena per intercettare le parole di Georges Bidault, l’oppositore numero uno di De Gaulle, già capo del governo nel 1946-47 e poi nel 1949-50, poi passato al terrorismo. ”Si abbandonarono a libagioni di vino, grappa e cognac. Continui brindisi. Alla fine della serata erano tutti ubriachi”. Quando però cambiò il vento, e al ministero dell’Interno si accorsero che De Gaulle aveva consolidato il suo potere, si cambiò politica. Era l’estate del 1962. ”Li arrestammo tutti. Io, per senso del dovere, tradii l’amicizia”. Grazie al suo ruolo a Sanremo, insomma, Molinari teneva i rapporti con i francesi. Liquidati i terroristi dell’Oas, fu sempre lui ad essere spedito a Parigi per capire che cosa c’era dietro una clamorosa rapina in via Montenapoleone a Milano. Era l’aprile 1964: sette rapinatori, parlando malamente l’italiano e sparando all’impazzata con mitra, terrorizzarono Milano. La poltrona del capo della polizia, Vicari, traballò. Fu Molinari il primo a essere informato che era evaso un certo Albert Bergamelli, gangster marsigliese, malavitoso con idee di estrema destra. ”Ricevetti dai francesi le informazioni e le foto. Ci dissero: se non li fermate, metteranno a ferro e fuoco le città italiane”. Ultima vicenda, ma forse la più clamorosa di tutte, l’inchiesta sul brigatista rosso Giovanni Senzani, il criminologo che divenne capo delle Br. Qui il racconto di Molinari, davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta sulle Stragi, si fa oscuro: l’ex questore sostenne di aver saputo da un suo confidente, influente piduista genovese, e clinico famoso, che i professori Senzani e Enrico Fenzi, suo cognato, erano brigatisti rossi. E non solo loro, ma tutta una serie di professori universitari. Sostenne di aver avvisato il ministero dell’Interno nel 1978 e che per tutta risposta si ritrovò sotto inchiesta lui e tutta la questura. Da ciò trasse la conclusione che Senzani era un doppiogiochista, legato ai servizi segreti. Ma la commissione non gli ha mai creduto» (Framcesco Grignetti, ”La Stampa” 28/9/2005).