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 2005  settembre 21 Mercoledì calendario

Un «Jocker» fra giocattoli e calcio Così ha ottenuto soldi e successo. La Stampa 21/09/2005. Se deve parlare di sé, fa pure il modesto

Un «Jocker» fra giocattoli e calcio Così ha ottenuto soldi e successo. La Stampa 21/09/2005. Se deve parlare di sé, fa pure il modesto. «Credo di essere uno degli uomini più intelligenti d’Italia», ha detto una volta a un giornalista, tanto per fargli capire con chi aveva a che fare. Poi si perdeva a spiegare che la sua «è un’intelligenza emotiva, non tecnica», che forse non sarà una cosa tanto semplice da capire, però rende l’idea. Ma Enrico Preziosi, Jocker come lo chiamano, o il Prez come l’avevano battezzato a Como, non è uno da prendere sottogamba. Nella sua vita ha fatto di tutto, cominciando a vendere orologi a scuola «ai figli di papà», come racconta lui parlando dei suoi giorni da ragazzo, ad Avellino, dov’era nato e dove il padre «aveva un’oreficeria in piazza della Libertà». Quando i suoi vendettero tutto, prese la valigia con lo spago e partì come un emigrante, verso Milano, e prima di salire dove è arrivato ha fatto l’operaio, il magazziniere, lo scaricatore, l’impiegato, l’agente di commercio, e persino «l’equiparato», come dice sorridendo: «una categoria che oggi non esiste più». Solo alla fine è riuscito a dividere la sua esistenza fra i Giochi e il Calcio, che gli hanno dato i soldi e il successo, passando dalle televisioni alle piazze, e pure dai magistrati, proprio come gli aveva insegnato il suo idolo, Silvio Berlusconi, che non finisce mai di ringraziare: «Senza di lui non sarei così ricco». Una volta salito in alto, fra una squadra di calcio e un’altra, e un’azienda con 2 mila dipendenti e 700 milioni di fatturato all’anno, s’è messo a sparare a destra e a manca, perché buon sangue non mente e a lui piace fare come gli pare. Preziosi è uno che ne ha sempre dette tante, con quella faccia un po’ così, che anche quando sorride sembra che gli puntino una pistola alla tempia. Se l’è presa con i suoi giocatori, e con i suoi allenatori, persino quando vincevano, come fece quella volta che licenziò Loris Domissini, il tecnico che aveva portato il Como dalla seria C alla A, liquidato in fretta e furia «perché non è un allenatore da massima categoria», o come ha fatto anche adesso con Serse Cosmi, che non voleva più tra i piedi a Genova: «è uno che cerca di mettersi in mostra vantandosi d’incarnare lo spirito di qualcuno. Ora noto con piacere che qui non c’è più». Poi se l’è presa con gli arbitri, che definiva «una corporazione mafiosa», e di uno, Cosimo Bolognino, una volta disse: «Avrebbe fatto meglio ad andare ad arbitrare in Africa». E soprattutto se l’è presa con il Palazzo del calcio, che giurava di far tremare a ogni spiffero di vento, a ogni curva ad angolo. Franco Carraro, il presidente della Fgci, per lui è «l’uomo nero». E solo quando aveva voglia di scherzare, diceva: «Ma quanti sederi ha per occupare tutte quelle poltrone?». Con uno spirito così non poteva che avere un avvenire assicurato. Difatti. La cosa strana è che la sua parabola ha cominciato a scendere proprio nel momento in cui è diventato presidente del Genoa, cercando di schierarsi all’ombra dei potenti del calcio, dietro le spalle di Galliani, e smettendola di sparare nel mucchio come aveva sempre fatto. Sulla sua testa ha cominciato a ronzargli l’inchiesta sul Como, la sua squadra fino al 2003, per bancarotta fraudolenta: secondo l’accusa, avrebbe depauperato il patrimonio della società cedendo un gruppo di giocatori al Genoa a titolo gratuito o a prezzi ritenuti irrisori, provocando così un ingente danno patrimoniale ai creditori. Adesso sono arrivati anche gli arresti domiciliari, alla fine di quest’estate terribile, cominciata con la maledetta partita contro il Venezia, vinta 3-2, e chiusa con la seria A cancellata dai tribunali. Dopo l’incontro col Venezia c’era stata la festa, la retorica, il trionfo, con l’Enrico Preziosi che s’era messo pure a cantare allo stadio. E dopo la festa c’era stata l’indagine per illecito sportivo: l’incastravano una valigetta con 250 mila euro e un bel numero di cimici sparse dappertutto. Preziosi e il suo Genoa avevano perso tutti i gradi di giudizio e invano avevano cercato di tirarsi fuori parlando di complotto: «Sono seriamente incavolato, c’è un attacco mediatico contro di me senza garanzie». Squadra in C con 3 punti di penalizzazione. E lui, 5 anni di squalifica. Per adesso, la parabola del Preziosi che voleva conquistare il mondo s’è fermata qui. La sua scalata non è durata molto: una decina d’anni. Dopo essere diventato ricco, aveva cominciato col Saronno, portato dall’Interregionale alla C1. Nel 1997, aveva acquistato il Como. Roba in grande: dichiarazioni da nababbo, programmi per la serie A. Promise di arrivare al massimo in 5 anni dalla C1 alla A. Promessa mantenuta, anche se il primo anno la squadra rischiò seriamente la retrocessione. Cambiò 4 allenatori e dimissionò il capitano Luca Cecconi, reo di essersi mostrato pessimista davanti ai compagni sul futuro della squadra: «Così come siamo messi non credo nella salvezza», disse. Il giorno dopo era fuori dalla rosa: arretrati pagati e la buonuscita versata dal presidente: «nella mia squadra non voglio gente pessimista». Due anni dopo, di nuovo squadra pericolante e girandola di allenatori: squadra prima promossa in B, e poi in A. Ci restò un anno e retrocesse. Niente paura. Uomo da sempre poco coerente, già da quand’era proprietario del Saronno, Preziosi si guardava in giro, cercando un’altra squadra: tentò la scalata al Torino, poi puntò su Genova sponda Sampdoria, provò un abbocco con la Fiorentina di Cecchi Gori, fece il filo al Napoli, e alla fine tornò verso la Liguria per prendersi il Genoa. E il Como? Lo vendette, pace, amen. D’altra parte, sempre con quell’aria lì, con quella sua mutria un po’ sussiegosa, erano i giorni che amava ripetere: «Sono passati 6 anni da quando sono qui, eppure a Como non saprei dove andare a bere un caffé». Ora che il caffé se lo può prendere solo in casa, in ufficio a Cogliate lo difendono tutti. Lui dice: «La porta del mio ufficio è sempre spalancata. In azienda non esiste sindacato. Il dipendente entra e mi racconta i suoi problemi». Il segreto è il clima familiare, la sua vita è sempre stata così, ripete. Se è vero o no, non sappiamo. All’uomo che si crede uno dei più intelligenti d’Italia, adesso non resta che aspettare: «Vengo da una terra dove si zappa tanto, si semina tanto. E forse si raccoglie». Pierangelo Sapegno