Varie, 27 settembre 2005
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GALVÁN Israel Siviglia (Spagna) 1973. Ballerino. Di flamenco • «Se c’è un antidivo, nel mondo del flamenco contemporaneo, determinato come nessun altro a mantenere, fuori della scena, un profilo di assoluta, quasi grigia, normalità, questo è Israel Galván: aria da ragazzino, aspetto quasi dimesso, a prima vista non immagini che il suo corpo possa sprigionare quella potenza, quella straordinaria ricchezza dinamica, che insieme all’originalità dei suoi spettacoli, fanno di lui, a poco più di trent’anni, un caposcuola
GALVÁN Israel Siviglia (Spagna) 1973. Ballerino. Di flamenco • «Se c’è un antidivo, nel mondo del flamenco contemporaneo, determinato come nessun altro a mantenere, fuori della scena, un profilo di assoluta, quasi grigia, normalità, questo è Israel Galván: aria da ragazzino, aspetto quasi dimesso, a prima vista non immagini che il suo corpo possa sprigionare quella potenza, quella straordinaria ricchezza dinamica, che insieme all’originalità dei suoi spettacoli, fanno di lui, a poco più di trent’anni, un caposcuola. Figlio d’arte, dopo un esordio folgorante come interprete - vincitore dei premi più ambiti poi ”primo” nella compagnia del grande Mario Maya - nel 1998 ha conquistato critica e pubblico, alla ”Bienal de Flamenco” di Siviglia, con Mira Los Zapatos Rojos! ispirato ad Andersen (visto in Italia, a Rovereto, nel ’99) e due anni dopo ha replicato con La metamorfosi , da Kafka. [...] Quando danza questo ragazzino sorridente è di una forza e di una purezza abbagliante. Incontrandolo di persona, dopo averlo visto in scena, si ha l’impressione di avere davanti qualcun’altro. Chi è, effettivamente Israel Galván? ”Un ballerino. I miei genitori erano ballerini. E tutti i bambini che conoscevo erano ballerini. stata una cosa naturale [...] Mi sento sempre ’chiamato’, attratto, dall’arte: mi piace leggere, andare al cinema. Ero un bambino estroverso ma con l’adolescenza mi ero chiuso in me stesso. Il flamenco mi ha permesso di continuare a comunicare con il mondo [...] In un primo momento era solo un modo per esprimermi. Poi, più o meno a diciotto anni, alla maggiore età - è arrivata anche la dimensione professionale [...] Il primo modello sono stati i miei genitori, mio padre. Poi Mario Maya. E poi Manuel Soler, una guida e un’ispirazione fino al momento della sua morte [...] A volte certi giornalisti non sanno riconoscere che quel che faccio è semplicemente riprendere certi modi, certe posture del flamenco più antico. Cose che non si sono più fatte, e non si sono più viste, da più di cinquant’anni. Ma è vero anche che mi piace rinnovarmi, cambiare. Da quando mi sono messo a cercare, è una lotta, costante per cambiare me stesso, sempre [...] Cerco di tenere separata l’arte dalla persona. L’artista è una vittima. L’arte è una forma di infermità, una malattia. Una forma di follia. Nel mio lavoro cerco di mantenere il controllo, l’equilibrio, fra libertà e follia. Una forma di follia controllata”» (Donatella Bertozzi, ”Il Messaggero” 24/9/2005).