Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2005  settembre 21 Mercoledì calendario

Vento di scirocco e pioggia, attraversando il cancello di Cinecittà. Viali di pini marittimi di verde smagliante, come ci fosse il mare

Vento di scirocco e pioggia, attraversando il cancello di Cinecittà. Viali di pini marittimi di verde smagliante, come ci fosse il mare. Tanto che i 22 teatri di posa sembrano allineati come transatlantici. Da una piazzetta spunta il campanile di Todi, poi il Partenone, una mongolfiera, i cardinali di gesso, una fila di case western con il saloon, una gondola, un drago. E infine, girando a sinistra, eccolo il teatro dei teatri, il numero Cinque, 40 metri per 80, dove Federico Fellini veniva a sognare, camminando laggiù, con le mani in tasca, il paltò, il cappello, la sciarpa rossa, bisbigliando biglietti di parole che diventavano trame di altri sogni e disincanti, memoria, rivelazioni come l’addio alla giovinezza nei Vitelloni, o l’alba della Dolce vita, o certe nebbie in 8 di quel grande cinema degli anni Cinquanta e Sessanta che avrebbe cambiato per sempre l’Italia e gli italiani. In questa scatola d’aria Fellini riprodusse il mondo. Infilò i cieli di via Veneto e il mare di Venezia, il cuore di tutte le donne, i disamori dei ragazzi, la musica della vita, le lacrime dei clown, e persino le favolose fiancate del Rex che salpano ogni notte nei sonni incantati dei bambini. In questa scatola d’aria senza viaggiare mai troppo lontano da sé cambiò la luce di tutti i nostri sguardi, come fa il lampo nella camera oscura che dall’ombra labile di un negativo incide per sempre il volto e il controcampo della vita. Il suo memorabile mistero di tempo che non ritorna. A quel mistero Fellini si avvicinò con voce canzonante e l’indolenza dei geni di provincia. Sempre architettando bugie per ingannarlo e gite notturne sui lungomare con amici maschi, Ennio Flaiano, Titta, Moraldo, Mastroianni, e decappottabili Cadillac comprate di seconda mano e grandi mangiate da Mastino a Fregene, e femmine da raccontare e vie di fuga da intraprendere. Sempre salvandosi dalle mascelle grossolane dei produttori, magari anche fuoriclasse in fiuto e pubblico come il giovane Dino De Laurentiis o Angelo Rizzoli, il duro, o Carlo Ponti, il contabile, ma sempre dopo aver incassato l’anticipo in cambio di un soggetto, dell’idea di un film, di una promessa. Il santo, santissimo anticipo, le centomila lire, il milioncino, che nei tempi grami del dopo-fame fu l’autentico soffio vitale del cinema italiano. Per lui, come per tutti i grandissimi giovinastri d’allora, Germi, Monicelli, Lattuada, Zavattini, Soldati, Risi, tutti arrivati da altrove, da province remote, al di là degli Appennini, per raccontare l’Italia sconosciuta agli italiani, e varcare i cancelli incantati di Cinecittà che Fellini chiamò: "La soglia". Cinecittà nasce pomposa nell’anno quattordicesimo d’era fascista, 29 gennaio 1936, dopo gli incendi della Cines, quattro anni al baratro, prima pietra posata da Benito Mussolini, che in maniche di camicia andava a caccia di "luce e propaganda" per la sua fiammeggiante "civiltà di Roma". La quale, per la verità, insediò i suoi stabilimenti cinematografici tra il verde agro-pastorale della via Tuscolana, sgomberando 600 mila metri quadrati di pratoni e greggi. Lì si insediò il grande telefono bianco del regime, e tutti i numeri al seguito, lo sguardo fatale di Isa Miranda, i levrieri di Elsa Merlini, la voce tonante di Amedeo Nazzari. Fellini sbarca a Roma nel 1939 con le mani in tasca. Viene da Rimini, "una parola fatta di aste, di soldatini in fila". Viene da una famiglia di benessere paesano, padre rappresentante di commercio, madre casalinga. cresciuto con i giocattoli di strada, il dialetto, l’immaginazione, la spiaggia d’inverno, i languori femminili della penombra. Sogna nuvole e donne con identiche proporzioni. Sogna il cinema, dopo aver visto Maciste all’inferno nel buio della sala Fulgor. Vive dentro a un tempo lentissimo che sarà per sempre il suo fondale. Rimini è "un pastrocchio, confuso, pauroso, tenero, con questo grande respiro, questo vuoto aperto del mare". Roma è un pieno. " braccia aperte, indifferenza, scenografia". Ci sono i teatri dell’avanspettacolo, i bordelli, i caffè. Racconta: "Sono arrivato una mattina. Non ricordo nulla di particolarmente avventuroso. Ero incerto se fare l’attore, il giornalista, il pittore, lo scultore: fare il giornalista mi sembrava la cosa più congeniale, anche se non ho il temperamento del testimone, non so riferire. Passo per il regista della memoria, ma non ho memoria. Debbo ammettere che anche i miei film raccontano ricordi completamente inventati. E del resto, che differenza fa?". Sa disegnare: disegna per il Marc’Aurelio. Sa scrivere comico: scrive gag per Aldo Fabrizi. Bazzica il cinema, certi caffè di piazza del Popolo e la radio. Alla radio incontra Giulietta Masina. Lui è alto, magro, allampanato. Lei è piccola, dolce, protettiva. Lui ha due camicie, una stanza, mezzo filoncino di pane. Lei ha un bel soggiorno a casa della zia, e minestroni, tepori, uova. Nasce tutto da un bacio. Da allora insieme per sempre, come per un patto, una promessa che non si slega, dopo il matrimonio, anno 1943, dopo la nascita e la morte del loro unico figlio, anno 1945, dopo averla trasformata in Gelsomina, il clown della Strada, in Cabiria, la prostituta, e nella donnina borghese di Giulietta degli spiriti, assediata dai seni di Sandra Milo, come nella vita vera. Dopo averle inflitto cento amori invisibili ai rotocalchi, ma zampillanti, tra le dita di mago della bugia: le segretarie, le assistenti, le attrici, le donne mangiatrici di uomini e di panna. Dopo i litigi: la pace. Dopo i letti separati: la convivenza. Lui e lei sempre insieme, nell’attico di via Margutta, 26 film fatti, 5 Oscar vinti e Palme d’oro francesi e Leoni veneziani, per 50 anni esatti. Fino a quell’ultima notte, 31 ottobre 1993, stanza del Policlinico e poi camera ardente al Teatro Cinque, tutto il cinema in ginocchio, con le immagini che scorrono, sulle tv del mondo, dell’ultimo Oscar ricevuto sei mesi prima, quello alla carriera, quando dal palco lui in smoking ha dolcezza d’occhi e impazienza solo per lei, Giulietta, seduta tra il pubblico, e le dice: "Please, stop crying", per favore, smettila di piangere. Piangeva Giulietta anche nell’anno del loro matrimonio, sotto le bombe, i lampi della guerra, gli incendi. Federico aveva conosciuto Roberto Rossellini e sceneggiava certi dialoghi per Aldo Fabrizi destinati a Roma città aperta, lungometraggio che si sarebbe girato proprio all’alba del mondo nuovo, con rimasugli di pellicola e inquadrature di polvere da strada che le riviste di cinefili noiosi avrebbero poi battezzato Neorealismo. Roma si riempie di marines con la mascella. Cinecittà di profughi. In uno dei primissimi film girati nell’anno 1946, Umanità, con Gino Cervi, si intravede sullo sfondo di una inquadratura proprio il Teatro Cinque tramezzato e carico di sfollati con autentici stracci in bianco e nero e pentole di latta, pane, pupi che dormono, e civiltà non più fiammeggiante, ma solo poveracci di Montecassino. Li rimanderà tutti a casa il giovane sottosegretario allo Spettacolo, Giulio Andreotti, che riapre i battenti di Cinecittà, si insedia in cima ai rubinetti del nuovo cinema italiano, regola i flussi, legge copioni, incoraggia, censura. Si inventa, nell’anno 1947, una legge che cambia il corso delle cose, detta "la blocca fondi", che congela per un paio d’anni gli incassi dei film stranieri, a meno che i produttori non si impegnino a spenderli tra i catini appena lucidati di Cinecittà. Piombano i sigari lunghi da Los Angeles, le dive, i gladiatori. Cinecittà ha eccellenti maestranze, falegnami, elettricisti, trovarobe con fantasia: "Si può fare, dotto’, nessun problema". Un cascatore costa due lire, la comparsa un cestino, l’attrice un concorso da miss qualcosa. Nell’anno 1950 Mervyn LeRoy batte il primo ciak di Quo Vadis?. La bionda Deborah Kerr fa scandalo. Arrivano i primi fotografi davanti ai cancelli di Cinecittà e alle porte girevoli del Grand Hotel. Compaiono i cappelli texani al caffè Rosati. Nasce la Hollywood sul Tevere. Racconta Fellini: "Le prime volte che vidi dei registi in azione pensai che era un mestiere ridicolo, cialtronesco, maleducato. Non capivo come si potesse essere capaci di insultare donne bellissime, davanti alle quali io mi sarei sdraiato come un micione". Invece, con il megafono in mano, sul set dello Sceicco bianco, Federico mette le ali. Le ali sono il dono del cinema. Il cinema è il gioco più prossimo a quello del Padreterno. "Posso creare un mondo, la vita. Nuovi esseri umani. Posso vestirli, farli parlare, agire". Il cinema gli rende sopportabile la vita e le ammaccature del carattere. Scrive: "In fondo cosa c’è di più riposante di fare un film? un alibi comodissimo, che ferma tutto e ti protegge da ogni responsabilità, i personaggi fanno ciò che voglio io, qualsiasi problema si può risolvere". Qualunque paesaggio si può ricostruire. Qualunque bugia assecondare. Il cinema è inganno perpetuo. Cartapesta, fantasia da incollare al pavimento del Teatro Cinque. Coincide con quella sua attitudine "di essere costituzionalmente incapace di dire la verità". Racconta Tonino Guerra, poeta, sceneggiatore di cento film e di Amarcord, solitario di Sant’Arcangelo di Romagna, narratore di leggerezza e ciclamini rossi: "Federico era un uomo pieno di bugie reali. Con una immaginazione così potente che non aveva bisogno neanche di viaggiare. Faceva tutto di carta. Di solito lavoravamo nel suo studio, primo piano del Teatro Cinque. Era bello arrivare, sedersi comodamente, cominciare con piccole fughe di parole su qualche fatto anche lontano... Il nostro aperitivo era l’Amaro Cora, è da lì che lentamente è saltato fuori il titolo Amarcord. "In quegli anni aveva già difficoltà a dormire. Non dormiva mai. Aveva provato tutto, i sonniferi, i libri, l’agopuntura... Dormiva in automobile. Si faceva venire a prendere ogni mattina per andare a Cinecittà. E, attraversando la città, finalmente dormiva. Fellini ha visto Roma dormendo". Dino Risi, capelli bianchi, camicia azzurra, magro, elegante, genio assoluto della commedia all’italiana, regista del Sorpasso e di Una vita difficile, milanese anche nel disincanto, è proprio l’opposto del suo amico e quasi coetaneo, Federico. Narra il vero e non il sogno. Il suo protagonista è Vittorio Gassman, atleta di solitudine e cinismo. Il suo set è all’aria aperta: la spiaggia, la cronaca, il traffico dei sentimenti. Ma la profondità è la stessa, identica l’ironia. Racconta nella sua doppia stanza del residence, provvisoria da 30 anni: "Ho conosciuto Federico appena arrivato a Roma, anno 1940. Credo tramite Lattuada e Mario Soldati. Era alto, magrissimo, con la testa piena di capelli. Lo chiamavamo il Faro. Tutti noi facevamo cinema per campare, imparando un po’ alla volta, perdendo tempo, vendendo piccoli soggetti in cambio di un anticipo e cercando di rimorchiare ragazze. "Probabilmente ci siamo incontrati negli uffici di XXIV Maggio, dove c’erano una sala d’attesa e tre porte. Nel primo ufficio ci stava Dino De Laurentiis, nel secondo Carlo Ponti, nel terzo, con un frigorifero enorme pieno di Campari, un tale Mambretti, di Como, ricchissimo, produttore dilettante, detto il Diavolo nero, perché correva con il motoscafo e aveva certe tute di gomma aderenti. Nella sala d’attesa c’erano le Miss Anticamera, tipo Sofia Lazzaro, che all’inizio era fidanzata di Achille Togliani, il cantante, poi puntò Carlo Ponti, che le cambiò il nome in Sophia Loren. "Sophia aveva una madre che le faceva la guardia: aveva vinto ai suoi tempi un concorso di sosia di Greta Garbo organizzato dalla Mgm, ma la cosa si era fermata lì. Così si era dedicata a custodire la figlia, che era bellissima. Un giorno la vidi uscire da un negozio di via Veneto. Io stavo al caffè con il poeta Sinisgalli e forse Federico. Lei aveva un tailleur bianco. C’era il sole che la illuminava, era così bella che ci alzammo tutti in piedi per la commozione. Sophia riuscì a farsi sposare da Carlo Ponti mettendo in giro la voce che Cary Grant era pazzo di lei e voleva sposarla, ma naturalmente non era vero, visto che Cary Grant era omosessuale. "Le donne erano il centro di tutto. De Laurentiis impazzì per Silvana Mangano, tutti i film erano per lei. Ponti fece fortuna inventandosi la Loren. Mambretti si rifiutò di produrre Pane, amore e... perché diceva che offendeva i carabinieri. Così Ponti si prese il progetto e accanto a De Sica impose Sophia. Quando comparve Anita Ekberg tutta Roma cascò ai suoi piedi e l’avvocato Agnelli le regalò una barca che si chiamava Anieta. Io l’ho amata per tre anni. Federico l’ha corteggiata, ma non so se c’è mai riuscito... Federico sosteneva che avesse la pelle fosforescente e quando lei entra nell’acqua della Fontana di Trevi è davvero la donna più bella del mondo. "Federico aveva sempre sette amanti. Mastroianni guardava una donna, spegneva la sigaretta e diceva, andiamo? Io avevo Anita e dopo Anita tante piccole attrici, simpatiche, attraenti, allegre, compresa una certa Nina che in qualunque momento le telefonavi, lei veniva, come i pompieri. "Con Federico andavamo in automobile per le campagne. Gli piaceva fare i sopralluoghi con queste Buick da crociera e scoprire trattorie, casali, paesaggi. Guardava le cose come sopra pensiero. Magari memorizzava per reinventarsi tutto dentro al Teatro. Nella sua testa lavorava sempre. Sapeva scegliersi le persone migliori. E infatti aveva una squadra formidabile. Dante Ferretti, lo scenografo, Piero Gherardi, il costumista, Pasquale De Santis e Tonino Delli Colli alla macchina da presa. E Nino Rota. Se ai film di Federico togli la musica di Rota, perdono il 30 per cento. Poi aveva gli sceneggiatori, Tullio Pinelli, Bernardino Zapponi, Tonino Guerra e il più grande di tutti, Ennio Flaiano, che era pigro, intelligente, cinico, coltissimo, impaziente. Aveva sempre bisogno di anticipi, anche se poi preferiva scrivere per i giornali, piuttosto che per il cinema. Sui dialoghi era molto veloce. A fine copione prendeva le forbici, tagliava e incollava battute, diceva: questa la mettiamo nella scena 35 e zac, la tagliava. Quest’altra è meglio anticiparla, fa più effetto nella scena dello schiaffo, la 18. Era formidabile. "Flaiano litigò con Federico nei giorni dell’Oscar a 8. Nel volo per Los Angeles, Fellini e Angelo Rizzoli viaggiavano in prima classe, lui in turistica. Quando scese era nero di rabbia. Federico provò a scusarsi e a dare la colpa a Rizzoli. Ennio si imbarcò immediatamente per tornarsene a Roma e da allora chiuse i rapporti". Fellini vive dentro al suo grande specchio. Arreda la sua solitudine di facce che per lui diventano "lampi di storie". affascinato dai corpi come caricatura della vita. Legge Kafka e Jung. superstizioso, lo intriga l’occulto, lo seduce l’inconscio. Chiama il Teatro Cinque "la mia clinica". Scrive: "Mi piace il suo silenzio da sanatorio, da ospizio nel quale lavorare calmo, senza voci". E ancora: "Ci passeggio come un archeologo che ha dimenticato il suo mestiere, non sa più che cosa cerca tra quelle rovine di cartapesta, mentre il vento solleva palline di polistirolo". Anche adesso il vento di scirocco solleva chiazze d’ombra e gocce di un temporale già passato. Sotto al padiglione centrale, dietro a una porta chiusa, con luce da museo, una patina di addio imprigiona lo studio che fu di Federico Fellini. Il divano e le poltrone di pelle, la Olivetti Lettera 31T, la piccola statua di Jimmy Durante, il tabellone con le foto dei provini, la scrivania, "la mia scrivania medianica che scricchiola, tamburella, geme, tossisce, piena di spigoli durissimi". Fellini è il cinema. Inimitabile e imitato da tutti. Esemplare anche nella lontananza degli ultimi anni, quando non si trovavano più soldi per produrre i suoi sogni, ultimo La voce della luna, anno 1989, malinconico di storia e di cast, come se persino Fellini dovesse infine piegarsi al fellinismo. Parola che pure ci regalò, insegnandoci a guardare. E fabbricando la nostra storia tra questi scatoloni che oggi macinano i molti vuoti della televisione, compreso il set sigillato del Grande Fratello in fondo al viale. C’era una volta, quando il cancello era ”la soglia”, un certo Pappalardo, il guardiano, che ogni mattina salutava Fellini, il Maestro. "Pappalardo portava una gran palandrana gialla lunga fino ai piedi con spalline militari, tasche, cordoni e un cappello con la visiera su cui c’era la scritta a lettere in rilievo: Cinecittà". Faceva anche lui parte del sogno, dell’adolescenza di tutti e dell’incanto da cinematografo, come le spalle nude di Anita, il frac di Marcello, le luci del luna park, il sorriso lunare di Giulietta. Oggi, nel dopo pioggia, lungo i viali deserti, solo ronzio di guardiani in scooter Honda e fondine con la pistola. Sui titoli di coda. Pino Corrias