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 2005  settembre 18 Domenica calendario

I Koch. Il Sole 24 Ore 18/09/2005. Quanah Parker, gran capo dei Comanche entrato nella leggenda come l’ultimo indiano libero d’America, ultimo ad arrendersi nel 1875 all’avanzata della grande locomotiva economica americana, potrebbe essere scusato qualora non apprezzasse l’ironia della sorte

I Koch. Il Sole 24 Ore 18/09/2005. Quanah Parker, gran capo dei Comanche entrato nella leggenda come l’ultimo indiano libero d’America, ultimo ad arrendersi nel 1875 all’avanzata della grande locomotiva economica americana, potrebbe essere scusato qualora non apprezzasse l’ironia della sorte. La cittadina che porta il suo nome è sulla mappa degli Stati Uniti che contano per ben altre ragioni che non l’odissea dei Comanche. Appisolata lungo la statale 287, sul confine tra Texas e Oklahoma, Quanah con le sue quindici strade e i suoi tremila abitanti - lo stesso numero del primo Novecento - è ricordata oggi come la culla della famiglia Koch. Ovvero di uno dei più potenti rappresentanti - se non tra i più noti - di quella inesorabile locomotiva. Dai Koch è nato uno dei grandi imperi industriali americani, quella Koch Industries che ha un giro d’affari di circa 40 miliardi di dollari, capace di tenere testa a gruppi come Microsoft, 30mila dipendenti e attività in 50 Paesi nei settori più diversi, dall’energia alla finanza fino all’allevamento di bestiame. I suoi gasdotti e oleodotti basterebbero ad avvolgere il globo terrestre ben dodici volte. E quello dei Koch è anche molto più di un impero industriale: nelle loro aziende è stata sperimentata una filosofia liberista di management, l’Mbm, o market-based management. E dal loro impegno politico sono emersi alcuni dei think tank di maggior prestigio a Washington, a cominciare dal Cato Institute, che hanno accompagnato la rivoluzione conservatrice e repubblicana, da Ronald Reagan a George W. Bush. Il successo è stato spesso gelosamente custodito dalla famiglia, avvolto nella discrezione: Koch Industries ha sede nel cuore del Paese, a Wichita nel Kansas, lontano dai riflettori. Eppure, a ben guardare, non è affatto un segreto: il gruppo è in tutte le classifiche delle principali società al mondo che rifiutano lo sbarco in Borsa. riconosciuto come la più grande società petrolifera non quotata d’America e la seconda in assoluto, alle spalle del colosso agroalimentare Cargill. E tra le aziende familiari è una rarità non solo per dimensioni (quarta dietro Wal-Mart, Ford e Cargill), ma anche per longevità: solo un terzo dei business di famiglia negli Stati Uniti raggiunge la seconda generazione, quella dei Koch. Al timone sono due fratelli tra i più ricchi d’America, con un patrimonio personale stimato in quattro miliardi ciascuno: il presidente e amministratore delegato Charles Koch, uomo del business, e David, uomo di mondo. David, che si muove con altrettanta naturalezza nelle praterie del Kansas e sull’affollato palcoscenico sociale newyorchese, ha conquistato gli onori della cronaca per aver acquistato l’appartamento sulla Quinta Avenue che fu di Jackie Kennedy e perché la sua villa di Aspen in Colorado ospita una cantina da 300mila dollari e feste stravaganti. Poco chiaro è tuttavia, per gli stessi Koch, il destino dell’azienda, almeno manageriale: un figlio di Charles, il 27enne Chase, ha lavorato per il gruppo come analista finanziario nel risk management, ma la famiglia non ha escluso, quando di tratta di successione al vertice, di affidarsi a dirigenti esterni. Quel che resta certo è che l’avventura dei Koch - dai primi sogni imprenditoriali fino a saghe fratricide e alle polemiche politiche - è una lezione nella costruzione di un impero, intrecciata con la storia del Paese, a partire dal nulla. Un nulla che si chiama Quanah: fu qui infatti che arrivò, nella seconda metà dell’Ottocento, il patriarca della famiglia, Harry Koch, immigrato dall’Olanda all’età di 21 anni. A Harry non mancava sicuramente lo spirito d’iniziativa: barattò i panni di cercatore d’oro per quelli di pioniere dell’editoria di frontiera, pubblicando dal 1894 il Quanah Tribune Chief. Nel 1918 divenne presidente dell’associazione degli editori texani e il suo giornale è stato nelle mani della famiglia fino al 1978. Ma fu uno dei suoi figli a fondare la vera azienda di famiglia. Fred, che aveva studiato al Massachusetts Institute of Technology, mise a punto un efficiente processo di raffinazione del greggio negli anni Venti dopo aver cominciato con una piccola squadra di camion per trasportare petrolio. Da allora la storia si fa saga: osteggiato dalle major petrolifere, Fred esporta le sue conoscenze nell’Unione Sovietica staliniana. E agli inizi del decennio successivo, dietro sua ispirazione, nascono impianti d’avanguardia in Urss. Ma l’infatuazione dura poco: scioccato dal totalitarismo sovietico, Fred torna a puntare sugli Stati Uniti, difendendo a spada tratta il suo business, anche per vie legali. Negli anni Quaranta crea le aziende che diventeranno i predecessori dell’impero. Comincia con Wood River e Koch Engineering, per dare in seguito vita, attraverso acquisizioni, alla Rock Island Oil and Refining. Negli anni Sessanta al suo fianco arriva il figlio Charles, reduce a sua volta dal Mit. Nel 1967, alla morte del padre, è proprio Charles che prende le redini e l’anno successivo cambia il nome dell’azienda in Koch Industries. soprattutto a lui che spetta la strategia di enorme crescita nella quale il gruppo si imbarca. Un gruppo che comprendeva già attività pregevoli, dall’energia allo storico ranch texano Matador, acquistato nel 1953 e tuttora gioiello di allevamenti di bestiame controllati da Koch Industries in Montana, Kansas e Texas. Charles ambisce tuttavia a crescere in business di importanza strategica, a cominciare dall’energia ma non solo, per moltiplicare i 177 milioni di giro d’affari e i 650 dipendenti ereditati. L’apice di questa strategia giunge con una grande acquisizione messa a segno nel 2003: per 4,4 miliardi di dollari in contanti compra dalla DuPont la Invista, leader nelle fibre sintetiche. Nel frattempo alla Koch Industries ha preso piede un’originale filosofia gestionale in grado di fornire una cultura al nuovo impero, quella Mbm che vuole, stando a precetti derivati dalle teorie degli economisti Friederick von Hayek e Ludwig von Mises, spirito d’iniziativa e responsabilità individuale a tutti i livelli. Nell’organizzazione interna della Koch mancano i "titoli" dei dirigenti, ad eccezione dei top executive, e al consiglio di amministrazione di sette membri si aggiunge un più ampio discovery board di venti persone, dedito a discutere trimestralmente le strategie di lungo periodo. Ma Fred Koch aveva lasciato in eredità ai figli anche una tradizione di impegno politico: diventato fervente anticomunista, fece parte della pattuglia di "patrioti" che nel 1958 fondò l’ultraconservatrice John Birch Society, in onore di quello che venne consacrato come il primo martire della Guerra Fredda, un missionario e agente segreto in Cina di nome Birch. Sono tuttavia Charles e David a compiere il salto di qualità politico: finanziano la nascita nel 1977 del liberista e libertario Cato Institute, un think tank che ha molto ha contribuito all’offensiva intellettuale conservatrice incarnata dalla presidenza Reagan negli anni Ottanta. Soprattutto sul fronte economico: «Il mio concetto - ha spiegato David Koch - uello di minimizzare il ruolo del governo e massimizzare il settore privato e le libertà individuali». Oltre al Cato, l’attività politico intellettuale passa per una rete di fondazioni (Charles G. Koch, David H. Koch e Claude R. Lambe Charitable Foundations) e di altri centri di ricerca, dal Citizens for a Sound Economy a Mercatus, dalla Tax Foundation all’Institute for Justice, dalla Foundation for Reserch on Economics and the Environment alla Federalist Society, fino all’università George Mason oggetto di generose donazioni. L’impegno politico produce anche uscite pubbliche per la famiglia: nel 1980 David andidato alla vicepresidenza del partito libertario. E nel 2004 la Koch Industries iventata la maggior finanziatrice della stagione elettorale, sborsando fondi diretti in gran parte al partito repubblicano e ai suoi candidati. L’azienda, per quanto abbia cercato di rimanere al riparo dal pubblico scrutinio, non è però immune a polemiche e scandali: da inchieste federali sull’inquinamento e lo sfruttamento irregolare di risorse petrolifere, alla faida che per un decennio ha spaccato e trascinato di tribunale in tribunale la famiglia Koch. Una famiglia composta, oltre che da Charles e David, da altri due fratelli, Frederick e Bill, gemello di David. Negli ultimi anni Koch Industries è stata così costretta a pagare danni alle famiglie di due giovani vittime d’una esplosione nelle proprie condutture sotterranee corrose. Il governo federale ha poi imposto una multa record da 35 milioni di dollari per 300 casi di inquinamento da petrolio. E nel Duemila l’azienda è stata accusata di 97 reati ambientali per il rilascio di sostanze cancerogene dalle sue raffinerie. Le accuse sono state successivamente ridimensionate, a falsificazione di documenti, e risolte con una multa di 20 milioni di dollari invece dei 352 milioni che rischiava. Ma la battaglia più lunga e pubblica è stata quella scoppiata dentro la famiglia. Nel 1980 Bill Koch ha cercato senza riuscirvi di estromettere Charles da presidente dell’impero: Charles e David, vittoriosi, hanno rilevato tre anni dopo per 1,1 miliardi di dollari il 48% dell’azienda detenuto dagli avversari, tra cui alcuni cugini e il quarto fratello, Frederich. Quest’ultimo, il primogenito, non è mai entrato nel business di famiglia, preferendo Monaco, le collezioni d’arte e i castelli europei, ma si era schierato con Bill. La vicenda non è tuttavia finita qui: Bill - che ha fondato una sua società energetica in Florida, la Oxbow, e finanziato la barca vincente nella regata America’s Cup del 1992 - ha denunciato i fratelli per averlo truffato sul valore della quota. Ancora peggio, ha accusato l’azienda di famiglia di pratiche disoneste nell’acquisto di greggio estratto da terreni pubblici e riserve indiane: la divisione Koch Oil avrebbe per anni truccato le misurazioni del petrolio che prelevava. Il caso, nella ormai leggendaria tradizione schiva quanto controversa della Koch Industries, si è spento con un accordo lontano dai riflettori: nel 2001 l’azienda ha chiuso la disputa al prezzo di 25 milioni di dollari, invece degli oltre 200 milioni che rischiava di dover pagare. Marco Valsania