Varie, 21 settembre 2005
ONOFRI
ONOFRI Massimo Viterbo 13 settembre 1961. Critico letterario. Ha intrapreso gli studi letterari e conseguito poi un dottorato di ricerca in Italianistica. Insegna Storia della critica letteraria e Letteratura italiana contemporanea presso l’Università di Sassari. Tiene la rubrica di narrativa italiana su ”Diario”, collabora con ”l’Unità”, ”il manifesto” e i programmi culturali Rai. Fra i suoi scritti Storia di Sciascia (Laterza, 1994), Ingrati maestri (Theoria, 1995), Tutti a cena da don Mariano (Bompiani, 1996), Nel nome dei padri. Nuovi studi sciasciani (La Vita Felice, 1998), Il canone letterario (Laterza, 2001), Il secolo plurale (Zanichelli, 2001), Sciascia (Einaudi, 2002). Per i tipi di Avagliano ha pubblicato La modernità infelice (2003) e Il sospetto della realtà (2004) • «[...] un libretto intitolato Ingrati maestri mise in subbuglio la critica italiana, creando malumori e scandali. Massimo Onofri aveva allora poco più di trent’anni e già osava sfidare i mostri sacri della critica italiana, da Contini a Segre, passando per Eco, Sanguineti e Citati, rivalutando figure isolate esterne alle ”attrezzatissime officine” dei formalismi, alle ”semiopatie”, alle ”culturologie”, eccetera eccetera. Ne veniva fuori un Novecento insolito, che partiva da Borgese e arrivava, attraverso varie strade, a Debenedetti, Baldacci, Mengaldo, Garboli, fino ad alcuni giovanissimi. Oggi Onofri insegna critica letteraria all’Università di Sassari, dove sta allevando un gruppo di critici militanti ventenni che definisce dal ”grande futuro”. E ha alle spalle una decennale attività militante esercitata puntualmente sul settimanale Diario. ”Non ho mancato un numero” [...] ”Sono d’accordo con Sanguineti - dice Onofri - che l’atto comunicativo è comunque un atto ideologico, ma personalmente non ho mai amato l’intellettuale cosiddetto engagé, che secondo me è morto con Sartre e Vittorini”. Dunque? ”Russo parlava di una politicità trascendentale dell’opera letteraria e Bufalino diceva che ogni scrittore è come un colombo viaggiatore che porta sotto l’ala un messaggio che ignora: gli scrittori espliciti, secondo me, finiscono per fallire”. Ma c’è anche il caso contrario, di colombi viaggiatori che sotto l’ala non portano nulla. ”A Contini piaceva tanto Faldella, ma giustamente Baldacci sosteneva che Faldella non valeva un De Roberto: sotto il suo stile non c’era niente, solo giovanotti politicamente corretti che sposavano la figlia del padrone, pronti a integrarsi in un’Italia lanciata verso sorti magnifiche e progressive. Era uno scrittore ideologicamente fragile rispetto al disfattista De Roberto, la cui diagnosi politica, tutta implicita, era alimentata da un pessimismo leopardiano”. Con questi criteri, rischiano di cadere tante teste di scrittori contemporanei: ”Tante”. Un esempio? ”Uno scrittore nettamente sopravvalutato è Erri De Luca, dove c’è una specie di neodannunzianesimo proletario, che mi fa venire in mente la battuta con cui mi pare Fortini bollò, ingiustamente, la prosa di Longhi: dente cariato sotto placca d’oro. Si tratta di una scrittura rarefatta, concentrata, di una sapienzialità e ieraticità che dissimula appena la sua radice piccolo borghese. un fenomeno interessante a livello di sociologia della letteratura, perché i libri di De Luca, che coniugano il sublime con il comunismo o il postcomunismo, forniscono facilmente ai fans la patente di anima bella e politicamente corretta. Il metro dell’ideologia, se vale per smascherare i cattivi scrittori, non aiuta a trovare i veri”. E per restare alla contemporaneità, un caso di colombo che porta messaggi senza necessariamente esibirli? ”Claudio Piersanti è della stessa generazione di De Luca ma è agli antipodi perché, come diceva Vittorini dei buoni scrittori, ci apre nuove prospettive sull’esistenza, ci racconta una realtà imprevista, mai scontata. Piersanti è dentro una tradizione profondamente italiana, molto elegante, di ascendenza bilenchiana, che mette insieme una forte essenzialità con le grandi metafore che ci restituiscono il simulacro della vita. Insomma, il non vitalista Piersanti batte nettamente il vitalista estetizzante De Luca”. Se dalla narrativa si passa alla critica, Onofri non ha dubbi nel sentirsi vicino, e non solo per ragioni anagrafiche, a gente come Raffaele Manica, Massimo Raffaeli, Filippo La Porta, ma esclude ogni tentazione di riproporre gruppi o movimenti. Bastano le affinità, anche nel rapporto con gli scrittori. ”Credo che la critica si giochi in una dimensione solitaria, oggi più che in passato. Il critico ha bisogno di amici, non di complici come è accaduto con i giochi di squadra della stagione ermetica”. E nella stagione della neoavanguardia? ”Anche. La complicità annulla le differenze. Per esempio, Sanguineti e Eco sono due intellettuali diversissimi: il primo è un dogmatico-sincerista, il secondo un neoludico sostanzialmente cinico, eppure hanno vissuto una stagione comune sotto il segno della sperimentazione. Eco è stato il teorico della paraletteratura, che con saggi anche geniali ha autorizzato l’integrazione tra alto e basso: purtroppo dal piacere del testo si è slittati alla piacevolezza facile e così si è abbassata la soglia, fino ad accogliere quel Mike Bongiorno inizialmente stigmatizzato”. E Sanguineti è il contrario? ”Sanguineti ha il merito di aver realizzato un’operazione linguistica molto complessa, nella tradizione comica dantesca. Certo, mi fa piacere che si dichiari un materialista, ma il suo marxismo incrollabile mi lascia sconcertato”. Meglio starsene separati, marcando ben bene i propri confini? ”Intendiamoci, il critico può essere un compagno di viaggio per certi scrittori, ma poi ha un mondo ideologico suo e una forza di scrittura propria: non amo i critici-scrittori alla d’Annunzio, alla Wilde o alla Citati, in cui l’artefice è ’additus’ allo scrittore”. Cioè? ”Parlo degli affabulatori che stabiliscono una sorta di competizione narcisistica con l’oggetto di cui parlano. Citati è come se dicesse: se leggete il mio Proust, non c’è bisogno di leggere la Recherche. Viceversa... [...] A me interessa il critico antagonistico, che lotta con l’angelo. Debenedetti o Baldacci non si compiacevano delle metafore ma nelle loro letture c’è una forza conoscitiva formidabile. Come in Mengaldo e in Garboli: sono critici di idee, oltre che di stile”. Altri nomi: Berardinelli e Ferroni. ”Il primo è stato importantissimo per la mia generazione, la sua opera di decostruzione di certe ideologie critiche (la semiotica, lo strutturalismo) ce lo rende quasi un fratello maggiore. Ferroni è un modello tra storiografia e militanza”. Esattamente l’opposto rispetto ai critici ”deboli” alla francese, gli emuli di certo Barthes? ”In effetti in alcuni strutturalisti si ha l’impressione che il nodo di una cravatta sia, come segno, equivalente a un verso di Dante: è come se la critica rinunciasse a stabilire dei valori in nome del testo in sé”. Eppure non pochi hanno nostalgia dei tempi dell’engagement sui metodi. ”Nell’esperienza reale, secondo me, il lettore in un libro cerca il geroglifico del proprio destino, una verità sul mondo. Ciò non significa ignorare le novità teoriche: Borgese, come Baldacci, erano critici molto aggiornati, ma in loro non si avvertono le cellule cerebrali al lavoro. Non hanno il demone della teoria, che in molti esclude il giudizio di valore. Che resta un dovere del critico”. C’è stata, secondo Onofri, una fase storica di totale rigetto degli strumenti critici, che ha coinciso con il momento culminante del ”calvinismo” e dell’’echismo”. Siamo alla fine degli anni Settanta. ”Nel suo [...] libro sulla generazione di Tondelli [...] Palandri racconta l’esperienza della rivista Panta: mi ha sempre colpito il fatto che da quell’esperienza fu tenuta volontariamente fuori la critica, eppure Tondelli era una spugna che assorbiva di tutto. Però gli mancavano i quadri di riferimento, il senso della tradizione. La biblioteca di Alessandria era stata bruciata per la seconda volta: che cosa potevano fare questi giovani, i più puri di cuore, se non illudersi di ricominciare da capo? Questo è il motivo per cui, rispetto alla generazione precedente (dei Cordelli e dei Montefoschi, dei Tabucchi e dei Celati), le risposte letterarie furono, con le dovute eccezioni, regressive e acritiche. Con l’ultimo Calvino e con i romanzi di Eco, con il mito di Borges e la conseguente convinzione che tutto era stato scritto, la letteratura italiana era arrivata a una fase terminale”. Forse si sentì il dovere di azzerare tutto e di ricominciare euforicamente da capo. ”Sì, ma Tondelli lo fece in modo molto accondiscendente rispetto alla realtà, aprendosi alle mode e alle mitologie del suo tempo”. Per la prima volta insomma si rinunciò al binomio letteratura-critica? ” così. Con effetti anche ridicoli di analfabetismo di ritorno. Per esempio lo stupore di Tondelli quando scopre Arbasino...”» (Paolo Di Stefano, ”Corriere della Sera” 21/9/2005).