Varie, 21 settembre 2005
GIUVA Linda Foggia 1953. Archivista. «[...] bella e colta esperta di archivi [...]» (Maria Laura Rodotà, ”L’espresso” 6/3/1997)
GIUVA Linda Foggia 1953. Archivista. «[...] bella e colta esperta di archivi [...]» (Maria Laura Rodotà, ”L’espresso” 6/3/1997). Moglie di Massimo D’Alema. «[...] Ci siamo sposati in Campidoglio che è una cosa orribile, una fucina di matrimoni, uno sposificio. Maggio e settembre, soprattutto... Mi ricordo che c’era confusione e gli invitati arrivati in ritardo non riuscivano a capire qual era il loro matrimonio, vagolavano alla ricerca del loro gruppo. Terribile. Veltroni, che è quasi mio coetaneo, io sono del 1953, era molto compreso nella parte, con la fascia tricolore in vita e alla fine ci ha fatto il discorsetto, ma non mi ricordo affatto che cosa ci ha detto. Com’ero vestita? Era una tragedia il mio vestito. Intanto il 20 settembre, il giorno del matrimonio, è una data a rischio perché non sai se fa caldo o se vai incontro all’autunno con una di quelle settembrate tremende. Ho deciso di comprarmi il vestito due giorni prima anche perché essendo incinta di sei mesi non potevo acquistarlo in anticipo, crescevo a vista d’occhio. Comprai un bel vestito alla Cicogna facendo scandalizzare le commesse perché entrai con una mia amica dicendo: ”Vorrei un abito da cerimonia, quindi un po’ elegante”. E allora cominciarono a tirar giù abiti dopo avermi chiesto per che tipo di cerimonia sarebbe servito. ”Un matrimonio”, dico io. E loro: ”Benissimo”. Ma poi tra me e la mia amica si svolse una conversazione, facemmo dei ragionamenti da cui si capì che la sposa ero io e allora la commessa che ci serviva rimase senza parole. Non era scandalizzata tanto dal fatto che ero incinta, ma che mi compravo il vestito due giorni prima delle nozze. Un abito a fiori, molto vivace, senza nessuna particolarità. Mi ricordo che il Campidoglio dà un certo numero di ”passi” per salire in auto sul colle in modo che gli sposi non facciano la scalinata a piedi. I nostri permessi furono requisiti dai parenti. Il padre di Massimo volle assolutamente il permesso, lo zio disse che aveva l’affanno e non poteva fare la scala. Insomma, morale della favola, noi sposi rimanemmo senza ”passi” e fummo costretti a parcheggiare la macchina al Circo Massimo, che non è proprio vicinissimo, e ci facemmo a piedi tutta la parte dove stanno gli autobus. [...] I parenti stavano lì tutti pronti e riposati, noi sposi arrivammo trafelati dopo la camminata e la scalinata. Massimo aveva un vestito carta da zucchero scuro, uno di quei vestiti e di quei colori che lui porta spesso e che fanno disperare i suoi collaboratori. La cravatta era nuova, se la comprò il giorno prima, il vestito no, era quello delle buone occasioni. La comprò in un negozio a Bologna dove si trovava il giorno prima per il partito con un compagno della federazione. Ce l’ha ancora quella cravatta e ogni tanto la tira fuori. Comprammo le fedi il giorno prima e l’orafo rimase scristianuto, come si dice dalle mie parti, a Foggia, e non facemmo in tempo a mettere la data. Però non la porto perché mi va piccola, dovrei farla allargare, a Massimo procura un’allergia. Vera, posso testimoniare, gli si arrossa il dito e gli si screpola la pelle. Per la stessa ragione, l’allergia, non porta mai l’orologio, ma è difficile che sbagli ora. E non ha nemmeno un’agenda. Dice che si ricorda i numeri a memoria, anche se da un po’ di tempo perde qualche colpo. Allora lo devo soccorrere io con la mia rubrica. Anche questo dell’agenda è un modo per affermare una sua vecchia aspirazione: vuol essere autosufficiente, non vuol dipendere da nessuno. [...] Il viaggio di nozze è durato giorni tre. Ci siamo sposati di sabato per permettere ai nostri amici delle varie parti d’Italia di venire; Massimo ha lavorato fino al giorno prima, ovviamente, e siamo andati tre giorni in viaggio di nozze a Montefalco, in Umbria, vicino a Foligno, dove i genitori di Massimo hanno una casa, la comprarono che era un rudere, un casale abbandonato. l’unica proprietà di casa D’Alema. Quando ancora era vivo il padre di Massimo ci andavamo spesso, ci piace molto, è una grande costruzione, con un grande camino, una grande cucina, dà l’idea del grande ricovero, del calore familiare. [...] Massimo ha molto forte il senso della famiglia come il senso del dovere tanto da considerare la famiglia un insieme di doveri oltre che di piaceri. Quando è tranquillo e sereno gioca volentieri con i figli. Ma spesso la sera gli capita di essere stanco morto [...] bravo anche con i risotti ai funghi e con il radicchio trevigiano, ma deve essere proprio trevigiano, altrimenti non vale. Quando devo andare a comprare le cose per lui mi faccio venire le febbri perché sono sempre incertissima. Mi dice tutto quello che devo fare perché lui arriva alle 8 di sera e deve trovare tutto pronto come i grandi cuochi, tutto pulito, lavato, messo a sgocciolare, se c’è un sugo di base va fatto, se c’è un brodo di base deve essere pronto, così con il soffritto... Lui arriva e ci mette l’arte. Naturalmente spesso succedono cose terrificanti, io mi scordo le cose. Cerco di non chiamarlo quando è fuori, ma quando devo cucinare e c’è qualche inghippo, sono disposta a chiamarlo anche dal presidente della Repubblica. Una volta, tanti anni fa, c’era di fronte a lui Mario Segni e stavano discutendo di cose importantissime sulle leggi elettorali e io l’ho costretto a parlare del soffritto che stavo facendo a casa. Oppure quand’era capogruppo alla Camera, attraverso il telefono sentivo dibattiti accesissimi intorno a lui, e noi parlavamo della cottura. [...] Una volta dei compagni ci hanno regalato una ricercatezza emiliana, una specie di zampone, ma di forma rotonda, una pallottolona buonissima che va cotta quattro ore. Io lo dovevo cucinare nel pomeriggio e invece me lo sono scordato perché dovevo fare altre cose. Sono tornata alle 7 e la cena doveva esserci alle 9 e allora ho preso la famigerata pentola a pressione. Quando Massimo è tornato e l’ha vista, mi ha guardato con disprezzo e non mi ha rivolto la parola per un quarto d’ora, era molto scocciato. Solo quando ha visto che in realtà il risultato non era drammatico, pur non ammettendo che era uguale, s’è ammorbidito. [...] Se riceviamo spesso? No, quasi mai, ma gli amici ci vogliono bene e sanno che ci comportiamo così non per spocchia, ma perché siamo due scombinati, io in particolare. Non sono in grado di gestire tutta la baracca, da questo punto di vista non mi considero una moglie perfetta, di quelle che lavorano, tengono i bambini e la sera preparano la cena. Io no, quando alle 7 sono stanca, dico basta, non ce la faccio più. Ma non me ne frega proprio niente. Gli amici lo hanno capito che questo è il nostro modo di essere e ci invitano molto loro: Alfredo Reichlin, Beppe Vacca, Franco Bassanini, e amici miei di lavoro, colleghi con cui Massimo si rilassa perché non parla quasi per niente di politica. Una volta veniva a casa Walter Veltroni con sua moglie Flavia e i bambini. In un’occasione c’erano anche Roberto Benigni e Nicoletta Braschi. Lui e Massimo si conoscevano, ma non molto, poi si sono incontrati da ”Piperno”, un ristorante del Ghetto e da allora si sono inseguiti con questa promessa di cenare insieme. Qualche giorno prima Benigni era stato intervistato da Enzo Biagi e avevano scherzato sui comunisti che ancora mangiano i bambini e allora Massimo e Walter lo hanno invitato dicendogli: ”Vieni che ci mangiamo i bambini”. Quando è entrato gli abbiamo fatto trovare i quattro piccoli schierati sulla porta: ”Questo è l’antipasto, questo il primo e così via...”» (da D’Alema, l’ex comunista amato dalla Casa Bianca, biografia scritta per Baldini&Castoldi dal giornalista di ”Panorama” Giovanni Fasanella). «Se un’onesta iena dattilografa (così il marito Massimo ama definire i giornalisti) si accinge a scrivere di Linda Giuva coniugata D’Alema, diventa immediato oggetto di minacce da parte delle donne circostanti: Non la trattare male, eh! Guarda che è simpatica, è una brava, si vede che non si dà arie, ecc. ecc... Non è neanche difficile, in realtà, trattarla bene. La dottoressa Giuva, archivista, docente al corso di laurea in Beni culturali ad Arezzo, bella signora smilza con due figli e un bravo parrucchiere, si è creata un ruolo di first lady per caso e se lo gioca mica male. Ha fatto vedere la sua casa a ”Gente”, ha dato un’ottima intervista al diffusissimo femminile ”Donna moderna” in cui s’è raccontata come italiana media normale di centro-centrosinistra: colta, socievole, presa dal suo lavoro, innamorata dei pupi, decisa a non esser vista solo come appendice del marito e perciò ferocemente attaccata al proprio cognome. E in cui, non per la prima volta, descrive un Max perfido nelle liti, isterico in cucina, ossessivo in barca, insomma insopportabile come un qualunque professionista quarantenne italiano. Eppure il pellegrinaggio dal papa con tailleurone, grandi trepidazioni e figli al seguito [...] non è piaciuto a tutti. E c’è chi teme la trasformazione della simpatica archivista di sinistra Linda Giuva in Linda-e-Pinta D’Alema, first lady magari per caso ma molto contenta, e con qualche rischio: alcuni vestiti regalati da una stilista, una cosa che ricorda un po’ certe signore socialiste di una volta e che nei dalemiani paesi normali sarebbe molto malvista. Ma si spera trattarsi di un’ingenuità iniziale. Anche se la chiave dello charme lindesco è proprio il suo entusiasmo chiacchierone, e perciò a rischio di ingenuità, da signora meridionale. Nei modi e anche nella nuova casa, di cui esibisce fiera il tappeto persiano, i divani bianchi, il tavolino trasparente, la vetrinetta coi liquori e il regolamentare quadro coi Sassi di Matera. Per il resto, se si vuol trovare un precedente, ci si può aspettare una moglie politica più simile a Barbara Bush, estroversa e volitiva ma lealmente zitta quando non era d’accordo con George, che a Hillary Clinton, copresidente a tutti gli effetti. Anche se Barbara è wasp e Linda è di Foggia. Se non, come ha detto al papa, .di San Giovanni Rotondo., luogo di padre Pio. E qui altre critiche. [...]» (Maria Laura Rodotà, ”L’espresso” 21/1/1999).