La Repubblica 13/09/2005, pag.42-43 Pietro Citati, 13 settembre 2005
Søren Kierkegaard. La Repubblica 13/09/2005. Qualche volta, la creatività letteraria ed artistica ha un aspetto mostruoso ed inquietante
Søren Kierkegaard. La Repubblica 13/09/2005. Qualche volta, la creatività letteraria ed artistica ha un aspetto mostruoso ed inquietante. Søren Kierkegaard nacque il 5 maggio 1813 a Copenhagen. Tra il 20 febbraio 1843 e il 30 aprile 1845, in 799 giorni, che a noi bastano appena per scrivere un romanzetto, compose e pubblicò (con pseudonimi) i seguenti libri: Aut aut (cinque volumi), Timore e tremore, La ripetizione, Briciole filosofiche, Il concetto di angoscia, Prefazioni, Stadi sul cammino della vita (appena ripubblicato nella BUR, con la bellissima introduzione di Ludovica Koch, e l´ottima traduzione di Anna Maria Segala e Anna Grazia Calabrese, pagg. 720, euro 11). Intanto pubblicava con la propria firma: Due discorsi edificanti, Tre discorsi edificanti, Quattro discorsi edificanti, Due discorsi edificanti, Tre discorsi edificanti, Quattro discorsi edificanti, Tre discorsi per occasioni immaginarie. In tutto (mi scuso se i miei calcoli non sono precisi), circa quattromila pagine. In quel momento, in Europa, c´era soltanto un altro scrittore che gareggiava con la diabolica velocità di Kierkegaard: un genio non meno grande di lui, che combinava (diceva Baudelaire) «la propria erudizione vulcanica con la destrezza di un abile irrigatore». Negli stessi anni, tra il 1843 e il 1845, Dumas compose: Il castello d´Eppstein, Georges (tre volumi), Ascanio (cinque volumi), Le Chevalier d´Harmental (quattro volumi), Le corricolo (quattro volumi), Amaury (quattro volumi), Sylvandie (due volumi), I tre moschettieri (otto volumi), Cécile (due volumi), Gabriel Lambert (tre volumi), Il conte di Montecristo (diciotto volumi), Louis XIV et son siècle (due volumi), Une fille du Régent (quattro volumi), La Reine Margot (sei volumi), Venti anni dopo (dieci volumi), La Guerre des femmes (sei volumi), oltre a sei commedie, due libri per bambini, quattro cambiamenti di casa e la costruzione, a Saint-Germain en-Laye, del castello di Monte-Cristo - con un minareto, un´abbazia gotica, l´Alhambra e una fortezza medioevale. Non sono possibili incertezze. I possenti cavalli meticci di Dumas, carichi di tesori e regine, isole e bagni penali, sconfissero i nevroticissimi e fragilissimi cavallini di Kierkegaard. Sappiamo tutto di Alexandre Dumas: i capelli crespi e lunghissimi, il vestito da caccia, il copricapo alto a penne rosse, il cappello di feltro alla Rubens, il gilet rutilante d´oro e di gioielli, i pantaloni di seta rossi e bianchi, le scarpe di velluto nero. Ma non conosciamo quasi niente di Kierkegaard. Stava volentieri rinchiuso (era agorafobo) nella grande casa scaldatissima e illuminatissima: girava per le molte stanze con una giacca viola e gialla da dandy davanti ai numerosi tavoli da lavoro, sopra ognuno dei quali stava un candeliere acceso. Si sedeva ora lì ora là, secondo l´umore, e scriveva un aforisma di Aut Aut o un racconto autobiografico o una pagina degli interminabili Diari. Leggeva: Shakespeare e Platone, Erodoto e i romantici tedeschi, la Bibbia, Don Chisciotte, Aristofane, Aristotele; o usciva di casa per ascoltare una pochade o un´opera di Mozart. Malgrado l´attenzione di Ludovica Koch non sappiamo chi fosse. Appena uno scrive qualcosa sopra di lui, ha subito voglia di cancellare la parola che ha lasciato incautamente cadere sulla carta: tanto Kierkegaard si moltiplica, fugge, diventa tutto o niente, si perde nell´aria. Sentiva di non avere mai vissuto; e siccome non era morto, non poteva nemmeno risorgere. Come Kafka, viveva recluso dentro sé stesso, dentro il mondo, dentro gli altri: si chiudeva con chiavistelli sempre più robusti - anche se, una volta, assicurò che il carcere lo rendeva libero. Subito dopo, aggiunse che le sue catene erano flessibilissime; e se cercava di liberarsi, un´altra catena lo legava in modo indissolubile. Tutto gli dava angoscia: dalla minima mosca al mistero dell´Incarnazione. La sua anima «era come il Mar Morto, su cui nessun uccello può volare, perché a metà strada precipita nell´abisso». Voleva essere colpevole, anche se (forse) non aveva colpe; e cercava di cancellarsi, in primo luogo con la parola. Come un soldato di frontiera, combatteva ogni minuto contro le orde selvagge dei barbari, ma anche contro il furore selvaggio e fantastico che portava dentro di sé. Era stremato, spossato, sfinito. «Non ho assolutamente voglia di niente». Come Pessoa, conosceva quasi un solo modo per scrivere: si moltiplicò in maschere e pseudonimi. Come dirà Pessoa: «Sono una maschera dove innumerevoli specchi fantastici distorcono in riflessi falsi un´unica realtà anteriore, che non era in nessuno specchio ed era in tutti gli specchi». Ecco qui, all´improvviso, editori d´ogni specie, falsi editori, editori-personaggi, fantasmi di libri, spie, editori che pubblicano testi di altri editori che a loro volta tirano fuori dai laghi manoscritti vecchi di secoli. Un baritono, un tenore, un basso, un soprano, un contralto si riuniscono nella stessa persona; e i loro gorgheggi e vocalizzi hanno timbri diversi. Qualche volta gli editori sono equilibristi, che danzano leggermente sopra una fune tesa sull´abisso, come ripeteranno Nietzsche e Kafka. Quasi sempre portano in sé il segreto, il silenzio, la notte: si chiamano Victor Eremita, Frater Taciturnus, Johannes de Silentio. Mai dovremmo credere che parlino a nome di Kierkegaard. Egli si riflette, si deforma, si prolunga nelle sue maschere: ma non sappiamo quale distanza, ogni volta, lo separi da loro. [ *** ] Chiuso nel suo carcere, Kierkegaard era un nodo di odi e di negazioni. Odiava non soltanto il sistema filosofico di Hegel, ma qualsiasi sistema, perché faceva diventare la vita «una bottega di robivecchi». Sebbene fosse un grande dialettico, detestava quelle piccole scatole colorate di latta che contengono le idee: non gli importava del vero o del falso. Quanto alla cosiddetta realtà visibile, quella dove noi passeggiamo così volentieri e ci salutiamo e ci facciamo inchini, la dissolveva tra le volute brillanti della sua prosa. Della storia si prendeva gioco, perché negli Stadi sul cammino della vita, il suo capolavoro, non ci sono stadi né tappe né movimenti: nessuno cammina; tutto è fermo come in un mausoleo. E quanto all´Eros e a Dio, per quanto ne parli continuamente, non c´è il minimo profumo né dell´uno né dell´altro. Gli Stadi comprendono tutte le possibili ossessioni dell´io: le torture e autotorture che non si arrestano, gli esangui fantasmi di mezzanotte: tanto che non incontriamo mai, in quel periodo storico pieno di apparizioni, una mente così occupata dai propri spettri. Questi fantasmi si trasformano in chiacchere. Sebbene Kierkegaard detesti la conversazione quotidiana, non fa altro che innalzare la chiacchera a un grado superiore, pensando a Socrate e a Platone. Qua e là, luccica qualche taglientissimo aforisma. Subito dopo, la grande chiacchera si rimette in moto: parla, parla, parla, non potrebbe essere più verbosa o futile, sfiora e supera il vaniloquio, devia, fugge, scorre, si divide, divaga, insegue l´infinito, discorre di nulla, dà la caccia «alla punta estrema della possibilità», piomba nell´abisso che si è preparato. Non c´è persona più tragica di Kierkegaard: eppure la sua vocazione più profonda è il buffonesco, la commedia dell´arte, la pochade, la guitteria. Deride tutto e tutti; e poi l´unica cosa che, per lui, è sacra: sé stesso. Con un gesto invisibile, si cancella. Sulla carta bianca, resta l´ombra di un lontanissimo sorriso, di cui ignoriamo il significato. Ma anche il comico è una maschera: dietro la quale forse c´è soltanto il nulla - la cosa più grave e pesante che, secondo lui, un uomo possa portare sulle spalle. [ *** ] Come si diceva una volta, Stadi sul cammino della vita è costruito come una «scatola cinese» o un «libro a cannocchiale». C´è un prologo, e poi un altro prologo, e poi un terzo prologo: appena comincia ad apparire il narratore, si intrufola un altro narratore, che di colpo diventa un personaggio, e scrive una cosa che non sappiamo bene se sia un racconto, un trattato, un epilogo o il prologo definitivo. Il primo prologo è grandiosamente comico. Lo scrive, l´8 gennaio 1845, Hilarius il Rilegatore, «un onesto lavoratore e buon cittadino». Qualche anno prima, il signor Literatus gli aveva portato dei fascicoli da rilegare: i quali rimasero in negozio per alcuni mesi. Dopo la morte di Literatus, Hilarius trova tra le sue carte un altro pacchetto di fogli manoscritti: non sa chi glieli abbia dati: forse sono caduti dal cielo; e lui li rilega in una brossura colorata. Poi, nelle sere d´inverno, legge il libro, scritto in bellissima calligrafia. Non ci capisce quasi niente; e di tanto in tanto fa ricopiare una pagina ai figli (che a loro volta non capiscono niente) per imparare la squisita arte degli svolazzi. Poi un seminarista comincia a dare lezioni al figlio più adulto del Rilegatore, in cambio di un piatto di minestra per cena. Appena legge i manoscritti, si entusiasma (sebbene anche lui non capisca niente), e assicura che avrà un grandissimo successo e sarà utilissimo alla morale e alle famiglie. Hilarius stampa il libro. Siamo subito messi sull´avviso. Il manoscritto, che stiamo per cominciare a leggere, potrebbe essere un´immensa sciocchezza. E figurarsi se un libro scritto da Søren Kierkegaard, incarnazione della sovrana inutilità dello spirito, riuscirà utile alla morale. La prima parte degli Stadi sul cammino della vita vive sotto il segno del Simposio di Platone. Cinque convitati, che escono di nascosto da altri libri di Kierkegaard, parlano di Eros. Ne parlano sotto l´ispirazione del vino: non per conoscere il delirio della profetessa di Delfi, o quello delle Muse o quello della Sibilla o il discorso di Diotima o le Idee di Platone, - ma per mescolare il vero ed il falso, con la seduzione che solo Kierkegaard conosce. Il discorso successivo, attribuito al giudice Vilhelm, fuggito dalle pagine di Aut Aut, è un´esaltazione del Matrimonio; e non comprendiamo fino a che punto Kierkegaard derida od esalti il suo virtuoso oratore. Il prologo della terza parte, Colpevole? Non colpevole?, comprende alcune tra le pagine più mirabili della prosa ottocentesca. Frater Taciturnus, «un uomo rinchiuso», giunge sul lago di Søborg: paludi, mare e terra, canneti rigogliosissimi, calma luce pomeridiana, assoluto silenzio, interrotto soltanto dal grido degli uccelli acquatici, l´angoscia dell´infinito. Quando Frater Taciturnus estrae misteriosamente dalle acque uno scrigno di palissandro, «intende il sospiro del lago chiuso, il sospiro dell´anima chiusa, a cui ha rubato il segreto». Il manoscritto contenuto nella cassetta viene attribuito a un luterano del 1751, che l´aveva nascosto nel silenzio del lago. Ma abbiamo subito due smentite: il testo è stato scritto da Kierkegaard stesso, che vi ha raccontato il suo amore per Regine Olssen; oppure è un «esperimento psicologico» di Frater Taciturnus. In questo momento, il grande libro dovrebbe concludersi, sigillato da Frater Taciturnus. Ma non appare nessuna conclusione o verità, sia pure provvisoria. Le parole avanzano, deviano, sostano, si moltiplicano, si interrompono in un luogo completamente casuale. Come dice Kierkegaard, «di scrivere, in un certo senso, non smetterò mai». La chiacchera non può avere fine. Soltanto la vita può avere una conclusione: ma la vita è del tutto irrilevante; e se Kierkegaard si ferma, deve morire, come Shahrazad. Pietro Citati