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 2005  settembre 19 Lunedì calendario

Pazienza, sotto il genio mio fratello. La Stampa 19/09/2005. Disegnava fumetti come fossero un’arte marziale

Pazienza, sotto il genio mio fratello. La Stampa 19/09/2005. Disegnava fumetti come fossero un’arte marziale. E li cambiò per sempre, dissacrando i tabù e i totem del suo tempo. Andrea Pazienza, morto a 32 anni d’overdose nell’88, è stato un grande artista, capace di guardare, in solitudine e autonomia, i controversi anni 80, raccontandone i sogni, le cattiverie, le idiozie. Sabato, al Vittoriano di Roma, si è aperta la più grande mostra antologica a lui dedicata, che permette di rileggere la sua opera come se fosse un’unica, ininterrotta striscia, con molti quadri e disegni inediti. Dalle vignette giovanili al Male, al Cannibale, a Frigidaire, le grandi riviste di quegli anni. Sempre svogliato, teso come la corda d’una chitarra di Sid Vicious, amante degli animali, era spietato con tutti. Era di sinistra, negli anni del Movimento, ma non voleva rinunciare all’intelligenza dell’indipendenza e, se gli proponevano di fare sciopero per i postelegrafonici diceva no grazie, perché la cosa non c’entrava niente con gli studenti del Dams. E così si beccava del reazionario. Disegnava le avventure comiche di Pert, capo partigiano, in omaggio a Pertini, rimediando un invito al Quirinale. Illustrava ragazzi che si bucavano, ninfette troissime, studenti cattivi, giovani malinconici. Perché tutto quel bestiario umano si teneva insieme nella sua mente psichedelica. La mostra di Roma è curata da Vincenzo Mollica e dai due fratelli del «Paz», Mariella e Michele. Mariella, oggi quarantenne, due figli, una laurea in storia dell’arte messa nel cassetto per insegnare in una scuola elementare, la troviamo spesso tradotta nelle vignette. Così ricorda l’amato fratello. Com’era suo fratello, Andrea Pazienza? «Era una personalità veramente dirompente, di una vivacità assoluta. Un ragazzo curioso di tutto e di tutti. Guardava il mondo con coinvolgimento, con disincanto, con ammirazione. Poi lo rappresentava senza alcun filtro e con assoluta sincerità». Ma con lei, la sua sorellina più piccola, come si comportava? «Il vero compagno di giochi era nostro fratello Michele. Con me, che avevo nove anni in meno, era di una tenerezza infinita. Sempre generoso, sempre attento. Gli faceva piacere avere una sorella più piccola. Non dimenticava mai un mio compleanno, mi copriva di regali strambi. Gli piaceva comprarmi scarpe improbabili, fosforescenti, che arrivavano dall’America». Come ricorda suo fratello in casa? «Disegnava sempre. Aveva una tale facilità di tratto che tante volte era più veloce nel disegnare che nel parlare. Si divertiva a fare caricature massacranti delle persone che conosceva. Cosa che imbarazzava moltissimo mia madre. Disegnava spesso anche me». E come la disegnava? «Ho delle caricature pazzesche, con un naso enorme a lampadina. Diceva che avevo un naso peggiore del suo. Una volta, in una vignetta per Il Male, mi rappresentò in modo un po’ dissacrante... avevo 15 anni, mi faceva dire delle cose parecchio sconce. Scoppiò un dramma in famiglia perché mia madre divenne furibonda. Lui negava che fossi io, ma ero riconoscibilissima, per come mi vestivo all’epoca, con i capelli sfrangiati e incolti». Come vivevate nella vostra casa di San Severo sul Gargano? «Dai 13 anni in poi, Andrea studiava a Pescara, faceva una vita da collegiale in un’altra città. Quando tornava a casa, a San Severo, divideva la camera con Michele. E quella camera, in fondo al corridoio, era un posto da morire dal ridere. Io e Michele diventavamo gli spettatori di quelle che lui chiamava ”le scenette”. Raccontava fantasticando cose che gli erano capitate a Pescara, episodi con i suoi professori, avventure a scuola. A volte inventava completamente, però era divertentissimo». Per voi due fratelli stare con Andrea era una festa? «Sì, certo. Ma c’erano anche momenti di tensione perché Andrea non aveva un carattere facile. Nessuno di noi in famiglia ha un carattere facile, per cui capitava che si litigasse moltissimo, soprattutto da adulti. Le liti erano furibonde. Ma Andrea aveva una grande capacità di far pace subito. Era bravo a farsi perdonare, sapeva comportarsi con furbizia. Tutto sommato era quello dei tre figli che riusciva a ottenere di più dai genitori. Sapeva essere ruffiano con mia madre. Era il più pronto a chiedere. Faceva richieste continue, soprattutto di soldi. Mia madre cedeva. Un po’ perché soffriva della sua lontananza per gli studi, un po’ perché lui ci sapeva davvero fare». Il ruolo di suo padre qual era? «Mio padre era insegnante di educazione artistica alle scuole medie ed è stato professore di Andrea oltre che mio. La cosa lo imbarazzava moltissimo, e per reazione era molto severo con lui. Ma la preside gli faceva notare che se metteva voti bassi ad Andrea, lei era costretta ad abbassare tutti gli altri, creando dei problemi alla scuola, perché all’epoca si rimandava ancora. Insomma era una situazione spinosa per tutti. Papà, comunque, è stato il primo a riconoscere il talento di Andrea. I suoi quadri sono presenti in mostra, in una sala centrale. Sono fondamentali per capire l’atmosfera che Andrea ha respirato fin dall’inizio». Dipingeva spesso, suo padre? «Mio padre era molto pigro. Il suo primo interesse era la caccia. Negli ultimi anni si pentì, ma, prima, la sua esistenza ruotava intorno alla doppietta e alle battute. Il resto era secondario. La pittura non doveva mai essere un obbligo. Era mia madre a insistere perché dipingesse. I suoi quadri erano molto richiesti. Non faceva in tempo a fare delle mostre perché vendeva le sue opere appena le finiva». Andrea stava con suo padre quando dipingeva? «Andrea aveva una ammirazione sconfinata per papà. Stava spesso nel suo studio bello, luminoso, al settimo piano del palazzo a San Severo dove abitavamo». Che cosa si sapeva in famiglia della droga di Andrea? «La droga per Andrea è stato un problema, ma devo dire che sapeva anche difendersi, perché aveva un fisico molto forte, energico. Nei riguardi dei genitori l’ha sempre vissuta con discrezione e timidezza. Non voleva che mamma e papà sapessero». Ma immagino che si sapesse lo stesso in casa? «Non subito. Si è saputo solo da un certo momento in poi. E poi, per una serie di motivi, cambiamenti di luoghi e di vita di Andrea, si pensava che il problema fosse risolto. E devo dire che in parte questa convinzione corrispondeva alla verità. La sua morte... è stata un incidente... Sarebbe potuto succedere molto più facilmente in passato. Invece è capitato nel momento in cui Andrea era più lontano dalla droga, e più forte». La vita gli stava anche andando abbastanza bene, dagli affetti alla carriera. «Non ha mai smesso di essere un ragazzo fortunato. Anche nei momenti peggiori della sua vita, quando era più giù psicologicamente, è riuscito comunque a fare delle cose bellissime. L’arte era la sua forza». Si autodefiniva un egoista. Lo era? «Sì, sì lo era. Non si tratteneva dal chiedere quando si trattava di chiedere. Ma riusciva a essere egoista tanto quanto sapeva essere buono e generoso. Tutti a San Severo ricordano, anche le persone più umili, che faceva sentire importante chiunque. Non era, nonostante quello che può sembrare, una persona presuntuosa. Rarissime volte, me ne ricordo veramente solo una o due, ha fatto dei commenti negativi sui suoi colleghi di lavoro. Era talmente in gamba che non aveva bisogno di dimostrarlo sottolineando l’incapacità degli altri. Anzi, al contrario, li avvalorava. Aveva una personalità travolgente. Chi gli stava vicino si sentiva speciale». Come ricorda il giorno della sua morte? «Andrea mi era venuto a salutare la mattina, era passato a casa mia a Roma. Io stavo studiando, per un esame di storia dell’arte. Sono scesa in strada. Ci siamo abbracciati. Mi ha chiesto se quella sera volevo andare a vedere il concerto di Bruce Springsteen perché aveva due biglietti. Gli ho detto di no. stata l’ultima volta che l’ho visto. Poi è squillato il telefono. stato orribile. Come se mi si aprisse il terreno sotto ai piedi e sprofondassi». Bruno Ventavoli