Corriere della Sera 09/09/2005, pag.21 Massimo Gaggi, 9 settembre 2005
Mississippi, torna la febbre dei casinò «Adesso apriamoli sulla terraferma». Corriere della Sera 09/09/2005
Mississippi, torna la febbre dei casinò «Adesso apriamoli sulla terraferma». Corriere della Sera 09/09/2005. New York. Decine di fantasmi d’acciaio giacciono sulle coste di Mississippi e Louisiana. Uno, una specie di enorme galeone lungo più di cento metri, è finito sopra al molo di un porto. Altri due – barconi che pesano centinaia o addirittura migliaia di tonnellate – sono stati spinti dall’uragano fin sulla terraferma: uno è «atterrato» su un’autostrada, l’altro ha attraversato 90 metri di spiaggia e si è fermato contro un «Holiday Inn». Sono le rovine dell’industria più fiorente di questa parte del Golfo del Messico che non è quella petrolifera, ma quella dei casinò. Proibite, come in quasi tutti gli Stati Uniti, le case da gioco si sono moltiplicate in questa parte del Paese negli ultimi dieci anni dopo che una legge del 1992 ha autorizzato il gioco d’azzardo «sull’acqua». L’idea era quella di ripristinare i casinò sui battelli fluviali «a ruota» dei romanzi di Mark Twain, ma ben presto quello delle case da gioco – un’industria animata da grandi gruppi immobiliari e da società specializzate che si sono «fatte le ossa» a Las Vegas – è divenuto un business colossale. Combattuti tra l’opportunità di creare posti di lavoro e aumentare le entrate fiscali e il timore di danneggiare l’ambiente sociale, gli amministratori pubblici si sono barcamenati mantenendo l’obbligo di esercitare il gioco d’azzardo su piattaforme galleggianti fisicamente separate, anche di pochi metri, dalla terraferma, ma autorizzando al tempo stesso l’apertura di casinò sempre più grandi. E il mare che bagna Mississippi e Louisiana è stato equiparato alle «acque sante» del fiume che per oltre cent’anni avevano isolato le «navi del peccato». Katrina ha distrutto tutti i 29 casino galleggianti costruiti lungo la costa del Mississippi, tra Biloxi e Gulfport, oltre a quelli di New Orleans e Shreveport in Louisiana. E nei due Stati è già scontro politico perché ora i gestori chiedono, oltre ai contributi pubblici per la ricostruzione, il diritto di portare i casinò sulla terraferma. Una decisione non facile per i governi dei due Stati: vogliono difendere il territorio dal «contagio» del gioco d’azzardo, ma non possono rinunciare a un’industria che nel solo Mississippi, una terra poverissima, ha creato 29 mila posti di lavoro e ha prodotto entrate fiscali pari al 10 per cento del bilancio dello Stato che l’anno scorso ha chiuso i conti in attivo per la prima volta in un secolo. Finito sotto i riflettori per le distruzioni provocate dall’uragano, quello del gioco d’azzardo negli ultimi anni è diventato un business gigantesco – oltre la fonte di grossi problemi politici e sociali – anche in altre regioni degli Usa. La Florida, ad esempio, vieta il gioco d’azzardo ma consente che intere flotte di navi-casinò siano basate nei suoi porti costieri. Ogni giorno i battelli salpano, percorrono qualche miglio, gettano l’ancora in acque internazionali e a quel punto le porte delle sale da gioco vengono aperte. Nel 2000 la più grossa di queste flotte, la Sun-Cruz Casinos, è stata acquistata con un’operazione spericolata e poco trasparente da un gruppo di imprenditori guidati da Jack Abramoff: un personaggio oggi travolto dagli scandali, ma che per anni è stato il più potente lobbista di Washington e intimo del capo dei parlamentari repubblicani Tom DeLay. Kostantinos Boulis, l’armatore di origine greca che aveva venduto (malvolentieri) la società, ha poi cercato di riconquistarla, ma è stato ucciso da una raffica di mitra mentre sulla sua Bmw attraversava le strade di Fort Lauderdale. La vera esplosione del gioco d’azzardo in America è arrivata, però, con la legge del 1988 che, per alleviare la povertà di molte tribù indiane, le ha autorizzate ad aprire casinò nelle loro riserve. Il Congresso immaginava che solo le comunità sperdute nelle aree più remote del Paese, dove è assai difficile impiantare un’attività economica, avrebbero fatto ricorso alle «slot machine» e ai tavoli verdi. Invece, guidati da immobiliaristi, finanzieri e lobbisti spregiudicati, gli indiani hanno costruito in pochi anni un’industria che l’anno scorso ha fatturato 18,5 miliardi di dollari (15 miliardi di euro): quasi il doppio di tutti i casinò di Las Vegas e del resto del Nevada messi insieme. Nella sola California ben 53 delle 107 tribù riconosciute dal governo hanno aperto case da gioco che hanno un giro d’affari di quasi 5 miliardi di dollari. Vere potenze finanziarie che pian piano – finanziando generosamente le campagne elettorale dei politici dei due fronti e riversando nelle esauste casse pubbliche fiumi di denaro (le tasse sul gioco) – sono riuscite a costruire nuovi casinò fuori dai territori delle riserve e sempre più vicini ai grandi centri urbani. Di recente il Senato, nel quale la Commissione sugli Indian Affairs è presieduta dal «duro» John McCain, ha deciso di cominciare a stringere i freni. Ma non è facile, anche perché l’industria del casinò indiani dà ormai lavoro a 550 mila persone (240 mila nelle case da gioco, le altre negli alberghi e nel resto dell’«indotto») e perché abili consiglieri giuridici hanno insegnato alle tribù come «forzare» la legge, ad esempio rivendicando la proprietà dei terreni sottratti loro dai «bianchi» due secoli fa. Tanto più che le corti federali hanno cominciato ad accogliere alcuni dei ricorsi degli indiani. Guidate da un abile immobiliarista, le tribù dei Cheyenne e degli Arapaho dell’Oklahoma, chiedono ad esempio di tornare nelle terre degli avi, in Colorado. Minacciano di ricorrere in tribunale per ottenere la restituzione dei 27 milioni di acri di terreno (comprensivi di buona parte della città di Denver) che controllavano nel 1851, ma poi si dicono disposte a rinunciare alla battaglia giudiziaria se lo Stato li autorizzerà ad aprire uno dei più grandi casinò del mondo, con cinquemila «slot machine» in un appezzamento di 500 acri alle porte di Denver. E, per di più, si offrono di versare nelle casse del Colorado un miliardo di dollari. Il governatore Bill Owens ha rifiutato l’offerta, ma è alla fine del suo mandato e non è rieleggibile: i lobbisti degli indiani stanno già lavorando ai fianchi i nuovi candidati e le comunità locali. Massimo Gaggi