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 2005  settembre 04 Domenica calendario

L’umanità in spiccioli. Il Sole 24 Ore 04/09/2005. Non ho l’abitudine di fare amicizia con gli estranei

L’umanità in spiccioli. Il Sole 24 Ore 04/09/2005. Non ho l’abitudine di fare amicizia con gli estranei. Sono una londinese. Nemmeno i veloci commenti sul clima che amano fare le vecchiette coi capelli grigi possono provocarmi a rispondere. Sono una londinese doc; lo si sente trasudare dai miei pori a distanza. Ma avevo un problema. Il mio ciclo era arrivato con due giorni di anticipo e mi aveva colta impreparata. Ero appena entrata nella National Portrait Gallery per sfuggire al freddo. Mentre camminavo nelle strade squallide, avevo cominciato a percepire una sensazione sulla pelle esposta all’aria come se vi versassero sopra dell’acido. Le dita erano intorpidite mentre cercavano nel borsellino le monete per la macchinetta automatica degli assorbenti; quasi non sentivo i ganci della cerniera. Ma non avevo spiccioli. Fui costretta a domandare ad alta voce nella piccola toilette: «Qualcuno ha tre monete da venti centesimi?». Sembrò che tutti uscissero contemporaneamente: tutti veri londinesi, ne fui certa. Rimase solo lei che si sistemava i capelli allo specchio. «Ha da cambiare?». Si girò lentamente mentre le mostravo una banconota da dieci sterline. Aveva delle sopracciglia straordinarie. Osservavo le linee di peli neri, come schegge di ferro magnetizzato, bordarle gli occhi fin quasi a ricongiungersi sopra il naso. Devo averle fissate bene per ricordarle ancora tanto chiaramente. Aveva grandi occhi neri e il volto rotondo con il profilo della mascella così marcato che sembrava avesse preso un leggero colpo di padella, come accade ai personaggi dei cartoni animati di Tom e Jerry. Cercò nella tasca della giacca e ne tolse una manciata zeppa di monete. Erano per la maggior parte monetine di rame. Alcune tintinnarono sul pavimento. Aveva solo monete: troppe. Non ne volevo una borsa piena. «Ha anche una carta da cinque?», chiesi. Gettò le monete nel lavandino, sparpagliandole nelle chiazze di acqua insaponata ristagnante. Poi disse: «Tu guarda». Parlava con un accento, ma in quel momento non riuscivo a capire da dove venisse; pensavo forse dalla Spagna. «tutto quello che ha?», chiesi. Annuì. «Bene, guardi, mi lasci prendere queste per ora...». Presi tre monete umide dal mucchietto. «Poi cercherò di cambiare nel negozio e gliele restituirò». Il suo sguardo era attento come quello di un gatto alle prese con una cordicella. «Capisce, non voglio tutte quelle monete». «Sì»,rispose tranquillamente. Le ero grata. Presi le monete. Ma quando riemersi dal minuscolo bagno, la ragazza e il suo mucchietto di monete erano spariti. La ritrovai che osservava il ritratto di Darcy Bussell. Inclinava la testa da un lato all’altro come se il dipinto fosse un abito che avrebbe presto provato per valutare la taglia. La avvicinai per la faccenda del denaro ma lei disse semplicemente: «bel quadro». Fu per la mia spiegazione rimasta inespressa o per il fatto che lei apprezzava quel quadro orribile, che rimasi a bocca aperta? «Veramente le piace?». «Lei non sembra vera. Sembra...». Le palpebre le sbattevano come nel sonno mentre cercava la parola giusta, «un sogno». Quel dipinto mi aveva sempre ricordato gli scarabocchi che fanno le ragazzine nei quaderni di scuola tutti gualciti. «Non piace?», mi chiese. Alzai le spalle. «Tu dici uno che ti piace», fece lei. Come ho detto prima, non ho l’abitudine di fare amicizia con gli estranei, ma c’era qualcosa in quella ragazza. I suoi occhi erano circondati da ombre scure, così che anche quando sorrideva - mentre si presentava allegramente come Laylor - rimanevano tristi come quelli di un ragazzino cupo a una festa. Considerai questo inizio di dialogo come una sconfitta, ma dovevo mostrarle un ritratto migliore. Alan Bennett con la sua misteriosa borsina marrone non la colpì affatto. Preferì la foto di Beckham. Germaine Greer le fece arricciare il labbro superiore, e davanti ad A.S. Byatt scoppiò a ridere sonoramente: «Questo ha fatto bambino?». Stavamo quasi dando spettacolo. Laylor non riusciva a tenere la voce bassa, e la gente cominciava a osservarci. Volevo liberarmi dell’obbligo che avevo con lei. «Senta, prendiamo una tazza di tè», dissi, «cosìpotrò restituirle i soldi». Tornò a tirar fuori la sua manciata di monete mentre ci sedevamo, spingendole insistentemente sul tavolo verso di me perché ne prendessi qualcuna. «No, userò questa», dissi. I soldi tintinnarono come una vincita alle slot-machine mentre li rimetteva dentro la tasca. Quando tornai con il tè, le allungai i venti centesimi che le dovevo. Cominciò a giocarci sul tavolo, facendone girare una attorno alle altre due disegnando un "otto". Improvvisamente si protese verso di me come se ci fosse qualcosa da cospirare tra noi due e disse: «Mi piace l’arte». Con quell’annuncio una luce scintillò brevemente in quegli occhi spenti per rivelare che non aveva più di diciott’anni. Una studentessa, forse. «Da dove viene?», chiesi. «Uzbekistan,» rispose. Era nei Balcani? Non ne ero sicura. «Dov’è?». Si leccò un dito, poi con grande concentrazione tracciò un contorno sul piano del tavolo. «Questo è Uzbekistan», disse. Leccò ancora il dito per marcare accuratamente un punto bagnato sulla mappa dicendo: «E io vengo da qui... Tashkent». «E tutto questo dov’è?», dissi indicando l’area della piccola mappa con i confini e la città che stavano lentamente evaporando. Girò la testa verso l’alto come per dire, da nessuna parte. «in vacanza?», chiesi. Annuì. «Quanto tempo si ferma?». Stendendo i gomiti sul tavolo prese un sorso di tè. «Eeeh, è amaro!», gridò. «Ci metta un po’ di zucchero», dissi, spingendo le bustine verso di lei. Era restia: «gratis?», chiese. «Sì,ne prenda una». Lo zucchero si rovesciò quando aprì malamente la bustina. Mi misi a ridere, ma lei, concentrata come in preghiera, avvicinò la tazza al bordo del tavolo e vi direzionò dentro lo zucchero con il bordo della mano. Anche il resto della sporcizia che stava sul tavolo cadde nel tè. Alcune briciole, un minuscolo pezzo di carta e un capello nero e ricciuto galleggiarono sulla superficie della sua bevanda. Mi venne quasi il vomito quando riportò la tazza alla bocca. «Lo getti via, ne prendo un altro». Nel momento in cui lo dicevo, un ragazzino venne al nostro tavolo e si sistemò, gambe accavallate, davanti a lei. Abbassò il cappuccio del cappotto imbottito. Aveva una testa strana - piatta come un ritaglio di cartone - con i capelli appiccicati alla fronte sudata in riccioli neri. Il volto era severo e determinato come due pugni alzati. Cominciarono a discutere in una loro lingua incomprensibile. Il tono di Laylor supplichevole, quello del ragazzino offeso. Laylor affondò una mano in tasca, prese i soldi dalla tasca e glieli offrì, ma gli spinse via la mano quando il ragazzo cercò di afferrare tutte le monete che lei teneva nel palmo. Poi, improvvisamente come era comparso, se ne andò. Laylor gli gridò dietro qualcosa. Tutti si girarono a guardarla, tranne il ragazzino che tirò diritto. «Chi era quello?». Con la tazza appoggiata al labbro, disse: «Mio fratello. Lui vuole sapere il posto dove dormiamo questa notte». «Ah sì, e dove sarebbe questo posto?». Stavo rovistando nella borsa in cerca d’un fazzoletto di carta, così feci la domanda senza pensarci. «la piazza dove dormiamo prima». «In quale hotel?». Pensavo al Russell Hotel, che si trova in una piazza: personale in livrea, cambio giornaliero della biancheria, stile tradizionale. Si stava togliendo il capello nero e riccio dalla lingua quando disse: «No hotel, nella piazza». Fu allora che cominciai a notare alcuni particolari che non avevo notato prima: sporcizia sotto le unghie scheggiate, il colletto della camicia gualcito e stropicciato, un graffio sulla guancia, la frangia che sembrava tagliata con un tagliaunghie. Trovai il fazzoletto e lo usai per asciugarmi le mani sudate. «Cosa intende, nella piazza?». «Dormiamo fuori, nella piazza», disse. Era così semplice che aprì le mani a suggerire la disposizione del letto. «Fuori?». Annuì. «Stanotte?». «Sì». Il ricordo del freddo pungente mi bruciava ancora le punte delle dita mentre chiedevo: «Perché?». continua a pag. 38 Non le ci vollero che due respiri per raccontarmi la storia. Lei e suo fratello avevano dovuto abbandonare il loro Paese, l’Uzbekistan, quando i genitori, che erano giornalisti, furono arrestati. Tutto fu organizzato in fretta e furia; amici dei genitori ottennero i passaporti per loro e li misero su un aereo. Erano in Inghilterra da tre giorni, ma qui non conoscevano nessuno. Questo Paese era un posto sicuro. Ora tutto il denaro che avevano era quello offerto nel palmo di una mano a un estraneo in un bagno pubblico. Così dormivano dove potevano, al riparo di una piazza, avvolti in coperte, dentro qualche cartone. Al tavolo vicino una donna si stava lamentando ad alta voce che c’era troppa schiuma nel caffè. Il suo compagno le raccontava il fallito tentativo della figlia di entrare nel mondo editoriale. Che cosa pensavano della strana ragazza seduta di fronte a me? Niente. Solo io sapevo che posto minaccioso era diventato il mondo di Laylor. Aveva perso un dente. Notai lo sgradevole vuoto quando mi sorrise dicendo: «Mi piace Londra». Mi aveva scelto, mi aveva prelevato dalla folla. Questa giovane aveva un disperato bisogno d’aiuto. Mi aveva anche astutamente creato un obbligo con lei. «Io ho foto di Tower Bridge a casa sul muro anche se non ho ancora visto». Ma perché io? Avevo un figlio a cui pensare. Perché scegliere una mamma "single" con un figlio piccolo? Noi non abbiamo tempo. Quelle due donne al tavolo accanto, con le borsette e le scarpe in tinta, loro non facevano altro che pranzare. Perché non aveva avvicinato loro, invece? «Da piccola, io voglio sempre vederlo...», proseguì. Non sapevo niente della gente nella sua condizione. Non devono andare da qualche parte? Non è Croydon? Non poteva andare dalla polizia? O in qualche associazione benefica? La mia vita era già abbastanza difficile senza questa sconosciuta che si era messa in mezzo. Puzzava di abiti ammuffiti. Immaginatela diffondere quel puzzo orribile nella mia cucina. Posare le sue luride mani sulle mie porcellane. Imbrattare la mia biancheria bianca. La sua facciona, con quelle sopracciglia da pantomima, ridere di mio figlio. Buttarsi sul mio divano e togliersi gli scarponi infangati mentre mi trascina giù nel suo inferno personale. Come mi sarei mai potuta liberare di lei? «Tu sai dove Tower Bridge?». Forse c’era qualcosa nel mio volto che tradiva bontà d’animo. Quando mia nonna giunse per la prima volta in Inghilterra dai Caraibi passò giorni di solitudine, freddi come una tomba spalancata. La storia che raccontò a tutti i nipoti parlava di uno sconosciuto che la svegliò mentre dormiva in un androne e le offrì un letto caldo per la notte. Fu questo atto di gentilezza che salvò la nonna. Era convinta di questo. Il suo Buon Samaritano. «Qualcosa non va?», chiese la ragazza. Adesso la nonna parla con rabbia dei rifugiati scrocconi; di quelli che cercano asilo e non sanno neanche parlare la lingua, che invadono il Paese e rendono le cose difficili per lei e per chiunque altro. «La scorsa settimana...», esordì con un tremito nella voce, «ero a casa». Era imbarazzante. Non potevo girarmi dall’altra parte, la ragazza mi stava guardando dritto negli occhi. «Questo giorno, venerdì», proseguì, «ho cucinato pesce per mamma e fratello». Gli occhi le si stavano inumidendo e arrossando; stava per piangere. «Questo giorno venerdì sono a Londra», disse. «E ho paura non vedere più la mamma». Solo un selvaggio le avrebbe voltato le spalle quando aveva bisogno solamente di attenzione. Decisi di aiutarla. Avevo tre camere da letto calde; una era vuota. Le avrei preparato la cena. Pollo fritto o, magari, pesce cotto nel vino. Le avrei preparato un bagno con la schiuma. L’avrei avvolta in teli da bagno scaldati sul calorifero. Avrei cercato abiti caldi e dopo aver messo a letto mio figlio le avrei preparato una cioccolata fumante. Ci saremmo sedute e avremmo parlato. Le avrei lasciato raccontare tutto quello che aveva patito. Le avrei asciugato le lacrime e l’avrei rassicurata che ora si trovava al riparo. Avrei telefonato a un collega della scuola per chiedere consiglio. Poi alla mattina avrei condotto Laylor ovunque avesse bisogno di andare. E prima di dirle arrivederci, le avrei messo in mano il mio numero di telefono. Tutti i nipoti di Laylor avrebbero saputo il mio nome. Dal naso le scendeva del muco. Tirò la manica della giacca e la strofinò sul volto, poi disse: «Devo trovare fratello». Non avevo più fazzolettini. «Le prendo qualcosa per asciugare il naso», dissi. Mi alzai dal tavolo. Mi guardò aggrottando le sopracciglia, i peli sottili appiccicati come velcro. Mi diressi verso il banco dove i tovaglioli di carta erano sistemati in una pila ordinata. Ne presi quattro. Poi, dritta, proseguii. Non indietro, verso Laylor, ma su per le scale, fino all’uscita. Spinsi la porta girevole e mi gettai fuori nel freddo. Andrea Levy