Varie, 10 settembre 2005
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Zec Safet
• Rogatica (Bosnia) 1943. Pittore • «“Guerra significa che cominci a cantare poi ti fermi: perché canto?”. Dipingere dopo Sarajevo. “Non potevo continuare con paesaggi poetici, alberi meravigliosi. Oggi la mia pittura è preghiera. Ha un’altra drammaticità, una gestualità diversa”. [...] fuggito con la famiglia dalla Bosnia nel 1992 [...] “Siamo stati fra gli ultimi a uscire da Sarajevo, e siamo arrivati senza più niente a Udine, dove abbiamo trovato rifugio dall’amico stampatore Corrado Albicocco. In quegli anni ho lavorato come un matto, con un’energia incredibile. È stata la mia salvezza”. Lo studio di Zec nel quartiere ottomano di Pociteli, vicino a Mostar, era bruciato insieme a tutte le sue incisioni. Invece lo studio in cui dipingeva a Sarajevo si è salvato, neppure un quadro è stato distrutto o rubato: “Qualcuno ha perso tutto, tutti abbiamo perso moltissimo”. Dalla fine della guerra Zec torna spesso nella sua terra, però continua a vivere in Italia. Dal 1998 è a Venezia, i figli fra di loro parlano italiano. Perché proprio a Venezia? “Perché no?”. Così la guerra spezza i destini, scegliere una città piuttosto che un’altra diventa quasi casuale: una libertà paradossale. Manca invece la libertà di dimenticare. “Se si può, è meglio. Pochi riescono. Io sono nato durante il Secondo conflitto mondiale, è quella e non questa, la guerra che ha deciso il mio carattere, sono cresciuto nelle paure dei miei genitori, ogni guerra lascia tracce profonde per generazioni. Se vivi una guerra, sei una persona difettosa”. Nella Sarajevo della sua infanzia, racconta Zec, le differenze di etnia e religione non contavano. Moschee, chiese cattoliche, chiese ortodosse, sinagoghe, convivevano da secoli a pochi metri di distanza. Lui ha sposato una cristiana, anche lei pittrice. “L’odio per la diversità è artificiale, è stato inculcato per favorire il grande business della guerra. Mentre ogni giorno piovevano granate su Sarajevo, Russia e America e le multinazionali belliche guadagnavano bene. Eppure sarebbe semplice chiudere le fabbriche di armi. Invece i padroni della guerra decidono a tavolino dove seminare odio. Ieri in Bosnia, oggi in Iraq”. Da un giorno all’altro il vicino ti diventa nemico, brucia la tua casa, uccide i tuoi figli. È lì il crinale, anche per l’artista. “Credevo che la Seconda guerra mondiale sarebbe stata l’ultima. Credevo che l’uomo si fosse evoluto. Invece è rimasto primitivo, anche se ha i telefonini e vola in America in poche ore. E non è più possibile chiudere i confini e cercare di proteggersi, l’infelicità è ovunque, il mondo è nostro vicino di casa. Un critico mi ha detto”, prosegue Zec, “che i miei quadri somigliano a certa pittura slava. Non sono i quadri che si somigliano, sono le tragedie che si somigliano. Da una guerra si esce sempre allo stesso modo, con in mano un sacchetto con poche cose o senza niente. Io ho il diritto e il dovere di dipingere come dipingo oggi. È la mia battaglia quotidiana. Contro le stupidaggini, la tv che vende, lo scherzo scacciapensieri in cui vogliono farci vivere [...] Non raffiguro temi religiosi, la religiosità è nello sguardo concentrato su piccole cose semplici, un piatto, una pagnotta, un cestino, una mano, una finestra. Dietro la sofferenza cerco sempre la bellezza. C’è l’eco dei maestri del passato, certo, Michelangelo per me è il più grande in assoluto, Rembrandt è il mio padre artistico perché faccio soprattutto incisioni. Prima, prima della guerra, mi definivano ‘realista poetico’. Dopo, ogni pennellata è preghiera”» (Giovanna Zucconi, “L’espresso” 15/9/2005).