Varie, 7 settembre 2005
Tags : Mauro Curradi
Curradi Mauro
• Pisa 1925, Roma 5 settembre 2005. Scrittore • «[...] era stato allievo all’università di Natalino Sapegno. Esordiente negli anni Cinquanta, apprezzato da Palazzeschi con opere che descrivevano il mondo borghese italiano come Gli ermellini e Schiacciare il serpente, aveva scelto nei decenni successivi di vivere lontano dall’Italia, preferendo mete come Svezia, Israele, India e Africa. E il Marocco, infatti, fa da sfondo a Via da me (1970), mentre l’Etiopia ritorna nelle pagine di Cera e Oro (2002) e lo Yemen in quelle di Persona non grata (2003), entrambi stampati da Meridiano Zero. In Passato Prossimo (2003) e nell’ultimo romanzo, Junior [...] lo scrittore era tornato a raccontare l’ascesa di giovani borghesi di provincia nel secondo dopoguerra. ” il mondo a cui io stesso appartengo”, aveva dichiarato [...]» (’la Repubblica” 7/9/2005). «[...] In mezzo secolo di narrativa [...] non ha fatto altro se non lavorare al millimetro, con misura magistrale, intorno ai dettagli (cioè gli ambienti, le atmosfere, persino gli sparsi lacerti di una possibile colonna sonora) che caratterizzano, come in nessun altro scrittore coetaneo, le attitudini della borghesia italiana del secolo scorso. Non che possa diminuirne la fisionomia, il paragone con l’opera di Alberto Moravia viene comunque obbligatorio: se Moravia stilizza presenze da obitorio, redige un catalogo della patologia o meglio della teratologia borghese consegnandola alle teche di un grande erbario (e vale a dire che in lui la freddezza è condizione indispensabile alla verità dello sguardo, il quale risulta impietoso e sarcastico proprio nella misura in cui si mantiene impartecipe), viceversa Curradi amava cogliere l’antropologia borghese nella tendenza a mutare senza davvero cambiare, nel falso movimento che un secolo almeno di storiografia ha battezzato col nome di opportunismo e/o trasformismo. Una voce del suo ultimo romanzo, Junior a un certo punto esclama: ”In Italia la borghesia non esiste. ’Borghesia’ vuol dire cultura: come in Francia o, in altri tempi, nell’Impero austroungarico. Qui si tratta di una casta economica. Nessuno vuol essere definito ’borghese’. Alla sola parola, tutti scappano a gambe levate. I giovanissimi per iscriversi al partito comunista. Altri si arrampicano su alberi genealogici di pura invenzione”. E, ancora, triangolando il ménage dei due protagonisti del romanzo, Francesco e Marco, nella Firenze dell’immediato dopoguerra, così ne deduce la filigrana psicologica, che in loro è tanto introiettata da risultare insieme naturale e atavica: ”Salvare moralmente Francesco?...In nome di quale morale?... Ridicolo: Francesco non aveva morale. Marco non aveva morale. Questo li aveva legati profondamente. Legati per sempre, nonostante le pugnalate alla schiena, vibrate in stile toscano. Lei, se acconsentiva, sarebbe stata per loro due un legame ancora più profondo”. Lei è Gianna, la copia conforme e rediviva di Lucrezia Panciatichi Pucci già ritratta dal Bronzino nei toni morbidi e freddi dell’autunno rinascimentale. Ma Gianna è pure il vertice dove culmina l’amore/odio tra Francesco Rapaccini (il marito, giovane e inesperto industriale, erede del ”boia di Prato”, un sadico repubblichino fatto fuori dall’ex mantenuta) e Marco Rinaldi, industriale per vocazione ed elezione, classico pescecane e peraltro amico d’infanzia di Francesco. In altri termini, Gianna diviene l’intersezione e la posta in gioco tra i due, l’oggetto allucinatorio di una sfida mortale. Violato da Francesco in un rito di passaggio erotico fra adolescenti, Marco vive per vendicarsene e sfregiarlo a propria volta. Boria di classe e ipocrisia gli vietano di gridare vendetta nel momento in cui simula il perdurare dell’antica amicizia, però ogni sua azione è indirizzata al medesimo scopo: derubare Francesco della fabbrica e del denaro, ricattare Gianna per via economica, indurla a cedere e a prostituirsi a lui, anzi a farlo al cospetto di Franco nelle forme della più sovrana umiliazione. Curradi sa bene che l’immoralismo della borghesia, alla lettera la sua mancanza di etica, coincide con l’ambivalenza e una sostanziale irresolutezza: è un’ansia da status a far perdere a Francesco la moglie, è un puntiglio edipico brutalmente tradotto in istinto predatorio ad accecare Marco, è infine una torpida ambiguità a smemorare Gianna e a travolgerla. Curradi li guarda vivere e perdersi con progressione fatale, li scruta come esseri tra loro differenti, mai sul serio diversi. Li vede appunto e irrimediabilmente come dei ”borghesi”, nel senso che a questa parola avrebbe potuto conferire tanti anni prima Tonio Kröger, cioè degli esseri incapaci di uscire dal loro statuto di classe se non per eccezione: del resto i pazzi, i malati, gli artisti, i rivoluzionari (dunque i soli individui cui Thomas Mann riconosceva la possibilità di valicare i limiti della couche originaria), sono totalmente esclusi dallo sguardo di Curradi. Non perché non li sappia riconoscere ma perché costoro, nell’Italia di cui lo scrittore pisano è stato fedele testimone, semplicemente non esistono. (A conferma, basta andarsi a leggere i romanzi precedenti di questo autore grande e troppo spesso sottovalutato, anzi ignorato: per esempio Passato prossimo, 2002, Persona non grata, 2004 e finalmente Cera e oro, 2001, un autentico capolavoro: volumi adesso in catalogo da Meridiano Zero dopo essere passati quasi tutti in quello dell’Obliquo di Brescia, le belle edizioni del pittore Giorgio Bertelli che ne hanno garantito la reperibilità in libreria per almeno un decennio). Se quei lemuri borghesi e mostri che nemmeno sospettano di esserlo, chiusi a chiave nell’immoralismo, si salvano dallo stato di immediata repulsione è proprio grazie al fatto che Mauro Curradi non vuole mai accondiscendervi né, tanto meno, redimerli; più semplicemente, vuole riferirli all’ambiente e lì incorniciarli una volta per sempre. Sa che non sono innocui né innocenti, perciò non li umanizza ma si limita a legarli al dettaglio che li faccia venire in primo piano, schermandone soltanto per un attimo la natura egoista e l’istintiva crudezza. In Junior tali dettagli sono i dischi di Glenn Miller e Tommy Dorsey, il motivo di Casablanca, la prima italiana di Via col vento, l’eco di certi romanzi americani, una citazione dal primo volume della Recherche, appena tradotto, l’angolo di un caffè dove incuranti della dittatura andavano a discutere Montale e Palazzeschi. Nessuna nostalgia, solo i residui frammenti dove ancora batte lo spirito del tempo» (Massimo Raffaeli, ”il manifesto” 6/9/2005).