Il Sole 24 Ore 03/09/2005, pag.11 Marco Niada, 3 settembre 2005
L’impero svedese degli affari domina da cinque generazioni. Il Sole 24 Ore 03/09/2005. La prova vivente dell’attualità della teoria di Max Weber su "Capitalismo ed etica protestante" sta in Svezia e ha un nome: Wallenberg
L’impero svedese degli affari domina da cinque generazioni. Il Sole 24 Ore 03/09/2005. La prova vivente dell’attualità della teoria di Max Weber su "Capitalismo ed etica protestante" sta in Svezia e ha un nome: Wallenberg. Il prossimo anno la premiata ditta famigliare di Stoccolma, a cui fa capo un impero con una capitalizzazione da 200 miliardi di euro, compirà 150 anni e segnerà un record. Poche dinastie restano in piedi dopo un secolo e mezzo. Se sopravvivono, devono ringraziare il cielo. Se sono cresciute, hanno cavalcato un prodotto fortunato con un’abile strategia. L’impero del sole di mezzanotte in cinque generazioni si nvece diversificato e moltiplicato in modo esponenziale in aree che vanno dalla finanza, all’alta tecnologia, alla meccanica, passando per farmaceutica ed elettrodomestici. Una galassia lievitata apparentemente nel caos, ma in realtà ancorata a leggi fisiche che i Wallenberg, complice una buona stella, hanno saputo sfruttare. Il destino degli imperi è legato alla capacità degli uomini e alle circostanze. I Wallenberg hanno avuto la fortuna di infilare la serie vincente in entrambi i casi. Ma hanno avuto anche quella disciplina che è stata il mastice gravitazionale della costellazione. Ottimi studi, con esperienze in America, legami internazionali, anni di tirocinio in società controllate per comprendere il business, sobrietà di vita, senza spazi all’umoralità. E, soprattutto, nessuna ostentazione. In un’intervista al Sole-24 Ore un paio di anni fa, Jacob, oggi presidente di Investor, la holding di famiglia a cui fanno capo il 90% delle partecipazioni, affermava di possedere "solo" sei milioni di dollari, poiché la fortuna familiare lindata in fondazioni. Per l’archetipo di capitalista protestante, il successo non giunge dal godimento personale e terragno della lunghezza dello yacht o dalla dimensione dei gioielli della moglie, ma dall’astratta categoria dell’accumulazione, dello sviluppo e della responsabilità sociale. Da quella "reputazione" con cui il buon cristiano dà gloria a Dio tramite la propria azione nel mondo. Ciò non implica affatto che i Wallenberg siano grigi e noiosi, dediti a una vita monacale. I tre che oggi tengono le redini dell’impero sono piacevoli persone, cosmopolite e colte. Peter, il vecchio patriarca che il prossimo anno compirà 80 anni ed è presidente delle fondazioni a cui tutti gli interessi di famiglia fan capo, tre volte sposato e tre volte divorziato, ha sempre amato i piaceri della vita e la buona tavola. Suo figlio Jacob è gioviale e alla mano. Entrambi hanno uno spiccato senso dello spirito. Marcus, che guida la Seb - la banca di famiglia - nipote di Peter e cugino primo coetaneo di Jacob (49 anni), è più riservato. A pesare sul carattere forse è stata la morte prematura del padre, Marc, suicidatosi nel 1971 a 47 anni. La mezza età pare essere un altro segno del destino della grande dinastia svedese. Secondo un detto «i Wallenberg sono come il buon vino: migliorano con gli anni». Provare per credere. I due "giovani" leoni Marcus e Jacob hanno iniziato a uscire dal cono d’ombra di Peter a 42 anni, prendendo cariche esecutive ai vertici di Seb e Investor. Quanto a Peter, schiacciato da un padre autocrate, Marcus, gran finanziere, ex-campione di tennis e ex-diplomatico, la chiamata del destino venne a 45 anni. Marcus non stimava il figlio e l’aveva parcheggiato alla Atlas Copco, azienda di famiglia di compressori d’aria, dove Peter aveva dignitosamente salito gli scalini aziendali, partendo da venditore in Sudafrica. Alla morte di Marc, Marcus non potsimersi dal dare una chance all’altro figlio, non senza dichiarare, nell’unica intervista in vita sua alla rivista Euromoney, che «mpossibile per chi mi succederà tenere in mano le redini di un gruppo così diversificato». Brutale ed enigmatico, Marcus riuscì con una manovra durata 25 anni, a recuperare alla Svezia la Ericsson (telecomunicazioni) finita in mano all’americana Itt, dopo il fallimento del finanziere svedese Ivar Kreuger. Fondamentale fu anche il ruolo che ebbe nel rilancio della linea aerea scandinava Sas. Grande amico del banchiere anglo-tedesco Siegmund Warburg, Marcus fu un grande del capitalismo europeo. Ebbe fiuto nello scegliere ottimi manager, come Curt Nicolin, Claes Dahlback e Hans Werthen. A questo punto una digressione si impone. Perché i Wallenberg non son tutti industriali e finanzieri. Anche se il destino li spinge in quella direzione. Un altro Wallenberg, Raoul, cugino di Marcus, che aveva iniziato senza infamia e senza lode a lavorare negli anni 30 in varie filiali dell’impero in Sudafrica, Haifa (allora Palestina) Ungheria, Francia, e Germania, dovette affrontare una prova fatale. La chiamata del destino avvenne nel 1944, poco dopo l’invasione di Hitler in Ungheria. Erano i mesi in cui la "soluzione finale" stava diventando chiara al mondo. In Ungheria vivevano 700mila ebrei e Hitler, tramite il "diligente" Adolf Eichmann, aveva già deportato a ritmo frenetico 400mila persone tra maggio e luglio. Salvare i superstiti era una corsa contro il tempo. Raoul accettò di diventare numero due della legazione della neutrale Svezia a Budapest, con la missione di salvare più vite possibile: chiese pieni poteri. Se essere imprenditori n termine che non si applica alla sola economia ma al puro intraprendere, Raoul fu geniale. Spregiudicato, ricorse alla corruzione, alle minacce e all’emissione di documenti falsi per garantire immunità sotto la bandiera svedese a quante più persone possibile. Iniziò salvandone alcune centinaia finché, confiscando abitazioni sempre più grandi divenute territorio svedese riuscì a proteggere ed espatriare decine di migliaia di persone. Secondo la "jewish library", quando i russi entrarono in Ungheria, Wallenberg aveva salvato oltre 100mila persone. I sovietici furono la sua tomba. Raoul non tornò infatti a casa. Secondo recenti risultanze di una commissione russa-svedese, sarebbe morto nel 1947 a 35 anni nel carcere della Lubjanka, dove fu imprigionato perché sospetto di spiare per gli americani. Un destino eroico e tragico. E ironico dato che il capostipite della dinastia, Andrscar, fondatore della banca Seb nel 1856, in un momento di difficoltà aveva accusato gli ebrei di essere la causa dei propri mali... Tornando a Peter, la pecora nera sospettata d’incompetenza, per lui le dure prove giunsero dopo il 1982, quando morì l’83enne padre Marcus. Uno dopo l’altro, il finanziere Erik Penser diede l’attacco alla Swedish Match (colosso dei fiammiferi), mentre Pehr Gyllenhammer (poi ceo di Volvo) ingaggiò battaglia contro altre parti dell’impero. Peter non solo riuscì a respingere gli attacchi, ma, contrariamente al padre finanziere, riuscì, grazie a una forte esperienza industriale, a far diventare leader aziende fino allora non propriamente ai vertici: Electrolux, Abb, Ericsson, Stora Enso e Gambro, per citarne alcune, divennero colossi globali. Nella sola Italia il gruppo andò crescendo fino a impiegare svariate migliaia di persone con alcuni miliardi di euro di ricavi. Nel 1998, in pieno apogeo dell’impero, Peter passò le cariche operative ai due giovani rampolli, Jacob e Marcus, assistiti da un gruppo di luogotenenti top manager nelle varie società operative. Fino a una nuova crisi, di cui Peter prese responsabilità: Percy Barnevik, primo generale dell’impero, top manager osannato in tutto il mondo, iniziò a sbagliare. La "sua" Abb smise di brillare. Una pensione super-generosa che si era attribuito (100 milioni di euro) lo fece finire sulla graticola dei media. Tra il 2000 e 2001 Barnevik dovette lasciare tutte le cariche, compresa quella Investor alla cui presidenza era succeduto a Peter nel 1998. Intanto il finanziere svizzero Martin Ebner, accusando i Wallenberg d’incapacità e pessima "governance" sferrò a propria volta l’attacco all’impero. Peter accusò il colpo e chiese scusa agli investitori in una lettera pubblica, liberando così i due "ragazzi" da ogni responsabilità. Questi hanno dovuto cavalcare la bolla speculativa e il suo scoppio a cavallo del 2000 e chiudere vittoriosamente la battaglia contro Ebner. Oggi il portafoglio che fa capo a Investor, dopo il duro biennio 2001-2, ornato a crescere, con una performance di oltre il 100% dal settembre 2002 per un valore complessivo delle partecipazioni di 17 miliardi di euro. Tre critiche ricorrono contro i Wallenberg. Una è l’eccessivo controllo sulle aziende partecipate in virtù delle azioni differenziate A e B, le prime con spropositati diritti di voto rispetto al peso dell’investimento. La seconda, speculare, è che è inutile controllare tante aziende sudando sette camicie: Investor potrebbe avere performances migliori diventando un agile fondo d’investimento. La terza è che i Wallenberg e i Governi socialdemocratici che hanno retto la Svezia per decenni sono due facce di una medaglia. Grazie ai Wallenberg, che gestiscono buona parte dell’economia nazionale, i socialdemocratici hanno avuto un solo comodo interlocutore. E a causa dei Wallenberg la Svezia sarebbe afflitta da grandi gruppi mentre ha bisogno di piccole e medie aziende. I Wallenberg ribattono dicendo che hanno diversificato all’estero pesando meno sull’economia nazionale, oltre ad avere ridotto il controllo. Quanto a Investor, sostengono che non c’è migliore gestione attiva di chi influenza i destini di un’azienda da cui vuol trarre rendimento. Le Cassandre dicono che i Wallenberg sono anacronistici. Altri rammentano che sono morti e risorti mille volte. Abili e determinati, hanno provato di essere ottimi custodi dei tesori industriali del loro Paese. Marco Niada