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 2005  agosto 30 Martedì calendario

Gli Sciti, inafferrabili cavalieri delle steppe. Corriere della Sera 30/08/2005. Un territorio disteso tra Europa e Asia, tra il Danubio e il Fiume Giallo

Gli Sciti, inafferrabili cavalieri delle steppe. Corriere della Sera 30/08/2005. Un territorio disteso tra Europa e Asia, tra il Danubio e il Fiume Giallo. Il grande corridoio delle steppe, lungo oltre 7 mila chilometri, ai cui estremi si trovavano da un lato il mondo greco romano dei Balcani e dall’altro la Cina degli imperatori Han. Questo immenso «vuoto» fu, tra l’VIII e il I secolo avanti Cristo, il regno degli Sciti, gli inafferrabili cavalieri nomadi a cui gli storici assegnarono nomi diversi secondo le aree geografiche dov’erano stanziati: gli Sciti reali (descritti da Erodoto e presenti sulle sponde del Mar Nero), i Sauromati e i Saka delle steppe dell’Asia centrale, gli Yuezhi dell’Ordos sull’altipiano della Cina e della Mongolia. Tanti popoli, probabilmente di lingue e di etnie differenti (indoeuropei ma anche mongoli), ma tutti portatori di tre elementi la cui compresenza annuncia una cultura comune: il nomadismo, l’arco e l’arte «animalistica». Popoli senza scrittura che per secoli sono rimasti a far da barbari nelle storie di Erodoto e nelle cronache degli annalisti cinesi, descritti sempre come cavalieri feroci, tagliatori di teste, uomini senza terra incapaci di affrontare il nemico faccia a faccia. Ma l’episodio di Dario l’Achemenide che li inseguì inutilmente nella steppa e si infuriò quando s’accorse di inseguire l’orizzonte, ci racconta una realtà diversa. Rispose infatti il re scita Idantirso: «... noi abbiamo le tombe dei nostri padri; trovatele e provate a violarle, e allora saprete se per quelle tombe noi siamo disposti a combattere o se ce ne staremo inermi». Dario capì e rinunciò a raggiungere i kurgan, le collinette di terra e pietre sotto le quali erano sepolti i guerrieri sciti, i loro servi, i cibi, i cavalli bardati e stupefacenti gioielli. I tesori nascosti in quei sepolcri che a centinaia punteggiano le steppe dell’Asia, attirarono nei secoli eserciti di predatori che nessuna minaccia riuscì a fermare. L’oro uscì da quei tumuli in quantità e in forme stupefacenti. E un’arte mai vista prima apparve improvvisa. Borchie di cintura, parti di finimenti per cavalli, pettorali, fibbie, placchette, faretre, archi, pugnali; tutti affollati di animali, reali o fantastici, solitari o in lotta tra loro, di esseri ibridi costretti in spazi impossibili o avvolti in arabeschi indecifrabili. Un’arte di bronzisti e orafi capaci di imprigionare il movimento. Spesso sono chiari i contagi delle forme greche, delle eleganze cinesi o dei modelli iranici (ma quanto viaggiò nel senso opposto?), ma l’arte animalistica racconta un mondo dove ancora si muovono minacciose le fiere antiche come l’uomo, le visioni degli sciamani e le oscure potenze della preistoria più lontana. Oggi questi capolavori sono gli unici «libri» in grado di raccontarci chi furono gli Sciti, popolo illetterato e nomade che non ha lasciato altro di sè: non i resti di una città, non un’officina, non un palazzo. Solo tombe. Gli stessi archeologi appaiono disarmati: per decifrare la storia del popolo del vento, che per secoli spazzò come una tempesta le steppe dell’Asia e contro il quale a nulla valsero il limes romano o la grande muraglia cinese. Gli studiosi hanno a disposizione solo questi oggetti. A essi dobbiamo chiedere chi li realizzò, chi elaborò i miti che raccontano, chi desiderò portarseli nell’aldilà. La risposta è: gli Sciti. Difficile dire barbari. Viviano Domenici