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 2005  agosto 31 Mercoledì calendario

Le memorie di Pico Cellini a caccia di falsi. La Repubblica 31/08/2005. Thomas Hoving, ex direttore del Metropolitan Museum che aveva un’ ammirazione sconfinata per Pico Cellini, lo aveva soprannominato il più grande fakebuster, cacciatore di falsi al cospetto di Dio, come Nembrotte

Le memorie di Pico Cellini a caccia di falsi. La Repubblica 31/08/2005. Thomas Hoving, ex direttore del Metropolitan Museum che aveva un’ ammirazione sconfinata per Pico Cellini, lo aveva soprannominato il più grande fakebuster, cacciatore di falsi al cospetto di Dio, come Nembrotte. Non era un’ esagerazione e gli americani lo potevano dire meglio di altri, perché i loro musei negli anni Venti e Trenta continuavano a esporre una serie di falsi dietro l’ altra: tutte opere incautamente acquistate in Italia e in Europa quasi sempre su consiglio di qualcuno di quegli esteti che vivevano tra Firenze e Roma con mammà e per il solo fatto di essere stanziali e di respirare l’ aria fine delle colline toscane si sentivano arbitri di buongusto (molto spesso non ha nulla a che vedere con la vera arte) e venivano chiamati marchand-amateur. E. P. Warren e John Marshall lavoravano per il Museum of Fine Art di Boston, Wolfgang Helbing per Boston e per i danesi della Ny Carlsberg Glyptothek e altri ancora. A volte potevano essere anche competenti, ma gli artigiani locali del falso avevano del genio per ingannare loro e i loro mecenati. Personaggi formidabili, come Hearst, Andrew Mallon, Pierpoint Morgan che nel proprio campo avevano una reputazione ineguagliata di furbizia e di spregiudicatezza, quando entravano nelle soavi stanze della pittura e della scultura perdevano ogni senso critico e si facevano abbindolare dal primo venuto. L’ unico a essere stato sempre completamente in buonafede tra i consiglieri era H. P. Parson che veniva da Harvard e che era stato una delle vittime più illustri, anni prima del leggendari Alceo Dossena, lo scultore supremamente dotato per strappare a folle di connesser grida di ammirazione davanti ai suoi bassorilievi «artici» che oggi appaiono come lavori liberty. Perché era impossibile anche ai falsari i più bravi di sottrarsi allo stile del tempo senza che se ne accorgessero. Per sua fortuna a un certo punto Parson aveva incontrato Pico, che l’ aveva messo sulla buona strada, rintracciando i cinque antiquari che gli avevano rifilato i falsi. Basta un breve e non completo elenco di opere contraffatte individuate da Pico negli anni tra i Trenta e i Quaranta per rendersi conto dell’ impressionante giro di affari che correva attraverso l’ Atlantico: la Kore Arcaica del Metropolitan, la Athena Arcaica del museo di Cleveland, la Madonna in legno policromo di Giovanni Pisano sempre a Cleveland, l’ Annunciazione di Simone Martini all’ università di Pittsburgh, la tomba di Caterina Savelli a Boston, la Diana e il cerbiatto di Ken Lewis per non parlare dei «mammozzoni» etruschi già citati nel precedente articolo e altri pezzi definiti «schifosi», oppure «non delle chicche ma delle cacche» da Pico nel suo colorito linguaggio come dicevano ammirati gli americani. L’ elenco dei falsi italiani era ugualmente impressionante e andava dalla fibula prenestina al Trono di Boston (a differenza di Zeri che aveva proclamato falso anche il Trono Ludovisi, Pico era convinto che fosse autentico), dalla Madonna della Palma di Urbino alla Fornarina di Raffaello. Nel primo di questi articoli abbiamo raccontato di quando andava a colazione dai Riccardi, i più celebri falsari dell’ epoca, in qualità di fidanzato di una delle figlie. E di come la frequentazione sia andata trasformandosi in una esperienza unica, che gli avrebbe poi permesso di guardare i falsi con gli occhi del falsario. Ma sarebbe un errore circoscrivere Pico nell’ ambito provinciale di una bottega artigianale, sia pure di altissimo livello come erano quelle fiorentine. Sotto i suoi modi bonari, la parlata romanesca e l’ immensa conoscenza di tecniche e di materiali, operava una sensibilità di grande finezza e un’ anima che risuonava d’ arte. Aveva lavorato a lungo con Bernard Berenson, sapendo benissimo che il grande sarcastico storico dell’ arte che irradiava intorno intelligenza con la stessa abbagliante evidenza di un laser, poteva lui stesso ordinare i falsi fondi oro senesi e appenderli ai Tatti, la sua residenza in Toscana o spedirli ai musei americani. Ma rimaneva sempre un uomo dal quale c’ era da imparare continuamente, con un’ apertura mentale molto più vasta di quella della Firenze dell’ epoca, tutti nobilucci affettatini e il culto dell’ olio bono e del vino bono e il rito del sandwich al tartufo in via Tornabuoni e la cioccolata di Rivoire, con poche eccezioni. Raccontando degli anni passati a Firenze, quasi venti, Pico dimostrava una particolare affezione a Berenson anche se non entrò mai - e come avrebbe potuto - in una qualche intimità, come gli succederà con Zeri e con Giuliano Briganti. (Una volta a Zeri arrivò a leggergli al telefono la parte iniziale del suo testamento in versi: «Il mio ginocchio dai muscoli grandi / sia messo in c... a Cesare Brandi. Il mio pital dove gli stronzi van / sia lasciato a Carlo Giulio Argan»). Negli ultimi anni preferiva alla lotta dei falsi la ricerca degli scomparsi cioè preferiva che venisse ricordato come l’ uomo che aveva trovato due capolavori considerati perduti, due Caravaggio, e di aver scoperto sotto un’ altra immagine la prima figura della Madonna che si conosca. «Quando da ragazzo ho iniziato a restaurare avevo dei protettori amici di famiglia. Uno di questi era il senatore Corrado Ricci, grande amico dei miei. Un giorno di moltissimi anni fa Ricci mi chiama dicendomi che vorrebbe farmi vedere un quadro di un suo amico, un bel Gentileschi che aveva un buco ed era molto sporco e andava ripulito. Così vado con il senatore in una via che era poi via Giulia ma ho dovuto ricostruire l’ itinerario perché mi portava il senatore e io ero distratto. Arriviamo a una vecchia casa all’ ultimo piano dove ci apre un vecchietto con la papalina che ci mostra un quadro sporchissimo ma che mi fa un’ impressione enorme. Nel quadro disegnata una bella ragazza proprio fiorente con una camicia trasparente, che sta segando il collo a un tipo e dalla ferita esce un getto d’ acqua che nel ricordo andava a macchiare il cielo. E accanto a lei una servente di quelle laide con una faccia rugosa da tartaruga cattiva. Dovevo restaurarlo poi non se ne fece più nulla per motivi che non ho mai saputo. Venticinque o trent’ anni più tardi Roberto Longhi mette insieme a Milano una famosa mostra del Caravaggio che porta finalmente un po’ di chiarezza tra le sue opere autentiche e tutti quei dipinti caravaggeschi che pretendevano di essere di mano del maestro. Una mostra straordinaria, dove ho sentito operai fare dei commenti così straordinari come non li hanno mai fatti nemmeno i critici, perché il Caravaggio era uno che parlava a tutti e questo era l’ incanto dell’ esposizione. Stavo con mia moglie e tornammo a Roma in vagone letto e a un certo punto lei si mette a leggere in un papello che ci avevano dato alla mostra tutti i Caravaggio conosciuti e un elenco con le descrizioni e quando arriva alla Giuditta e Oloferne, così si chiamava e che nessuno aveva visto da oltre un secolo, mi venne subito in mente il quadro del vecchio con la papalina. La faccio breve ma ho passato in realtà settimane prima per ricordare che era via Giulia poi per presentarmi a ogni portone e a domandare ai portieri che naturalmente erano cambiati, abitava qua trent’ anni fa un vecchietto con la papalina? E i portieri: "Ma che vole?", perché credevano che fosse una scusa per vendere a domicilio. E finalmente trovo la casa e c’ è un portiere che si ricorda che all’ ultimo piano abitavano due famiglie e mi dà i nomi e io comincio a telefonare a quella sbagliata. A quell’ altro nome finalmente risponde un tale che sta a sentire il racconto della mia visita di trent’ anni prima con la descrizione della stanza del quadro in silenzio. Poi dice: "Sono tornato dal Sudamerica da pochi giorni e lei mi sta descrivendo con un’ esattezza direi diabolica una scena che avevo dimenticato perché allora ero così piccolo. Qui tutto è rimasto come allora, esattamente come lei l’ ha descritta e venga subito". E io allora vado di corsa, mi accorgo che il rivolo di sangue non macchia la camicia della ragazza ma insomma è proprio Caravaggio. Il giorno dopo lo faccio fotografare in tutte le sue parti, anche molte foto dei particolari e poi vado a trovare Longhi, gli metto l’ immagine di un dettaglio sopra la sua scrivania come lui faceva con noi per allenarci a riconoscere dai dettagli e lui subito si eccita perché aveva un occhio imbattibile, il più grande attribuzionista che mi è mai stato di incontrare. E comincia a strillare: "Ma dove ha trovato questo... ma è incredibile... ma mi faccia vedere..." Ed io continuavo a mostrargli i particolari e lui sempre più eccitato: "Ma lasci perdere i particolari e mi dia la foto intera". "Ma professore ce l’ ha insegnato lei questo metodo". "Ma quale metodo, questo è Caravaggio" e telefonò subito davanti a me al ministro per annunciargli la scoperta "di un mio allievo", disse proprio così, chiedendo la proroga della mostra di altri due mesi». L’ altro Caravaggio scoperto da Pico è La negazione di San Pietro, apparteneva a una Caracciolo di Napoli, ma sempre Longhi aveva sentenziato che si trattava di un Battistello e non l’ aveva ammesso alla mostra di Milano. «Io venni chiamato qualche tempo dopo dalla Caracciolo - racconta Pico - per restaurarlo e pulirlo. Era veramente uno splendore ma aveva un fondo nero ancora poco convincente. Io intuivo che fosse un Caravaggio e portai di nuovo Longhi a Napoli e lui fu gentile come al solito ma quel fondo nero non lo convinceva: «Pico non lo vede che questo quadro non respira? Lei ha fatto un lavoro magnifico ma si metta bene in testa che questa è una copia di un originale perduto». Io non ero riuscito a convincere lui ma lui non era riuscito a convincere me. Perché sapevo che era Caravaggio: la tela, gli impasti, il modo con cui tracciava le linee, tutto faceva riferimento a questo grandissimo pittore. Allora mi sono armato di una pazienza infinita e cominciato a guardare il dipinto a luce radente e servendomi del microscopio. Ho visto sul fondo dei rilievi che non avevano alcuna ragione di essere. Allora con il bisturi ho cominciato a raschiare questi rilievi, è schizzata via la crosta e da sotto è comparso un punto rosso, rosso vivo, rosso sangue. Allora ho pensato che dovevo correre più rischi e ho continuato a raschiare con il bisturi e dopo un po’ sono apparse piccole fiammelle e questa scoperta mi ha incoraggiato ad andare avanti e finalmente è apparso un camino acceso, i punti rossi erano le faville, e la scena corrispondeva perfettamente al testo del Vangelo che dice che Pietro fece la negazione in una casa privata davanti a un caminetto dove si erano rifugiati dei militari. Allora Longhi che era veramente un uomo straordinario non perse tempo a scusarsi: come entrò nel mio studio e vide il quadro restaurato disse: "Ha ragione lei, è Caravaggio. Dica alla contessa che se viene a Firenze le faccio la perizia". Allora la Caracciolo prese il quadro e da sola come Cappuccetto Rosso un giorno andò a Firenze. La colpa è stata anche mia che non l’ ho accompagnata. Insomma strada facendo ha incontrato il lupo e il quadro è stato trafugato o venduto per un pezzo di pane». Stefano Malatesta