Il Sole 24 Ore 28/08/2005, pag.29 Salvatore Settis, 28 agosto 2005
Il braccio della Pietà. Il Sole 24 Ore 28/08/2005. In una lettera a Huizinga (1921), l’amico di Warburg André Jolles scriveva che «il Rinascimento ebbe la sua culla in una tomba», cioè nell’intenso studio dell’arte antica condotto dagli artisti sui sarcofagi romani
Il braccio della Pietà. Il Sole 24 Ore 28/08/2005. In una lettera a Huizinga (1921), l’amico di Warburg André Jolles scriveva che «il Rinascimento ebbe la sua culla in una tomba», cioè nell’intenso studio dell’arte antica condotto dagli artisti sui sarcofagi romani. Un caso famoso è la Deposizione di Raffaello alla Galleria Borghese (1507), in cui il braccio destro di Cristo pende esanime, e l’abbandono delle membra è un’efficacissima Pathosformel della morte. Raffaello giunse a questa composizione dopo un lungo percorso, documentato da numerosi disegni preparatori, almeno sedici. Nei più antichi la composizione era di modi perugineschi, col Cristo morto giacente al suolo; altri disegni mostrano una drammatica svolta, con l’introduzione del nuovo gesto, che è stato chiamato (G. Pellegrini) «il braccio della morte», e del gruppo dinamico dei portatori del Cristo morto. A partire da Hermann Grimm (1872), tutti ripetono che questo cambiamento così radicale fu innescato da un sarcofago romano con il trasporto funebre di Meleagro. Nella Pala di Raffaello, conclude von Salis (1947) dopo aver ripercorso all’indietro fino al V secolo a.C. la storia del motivo, «il Redentore è un Greco defunto». Le conseguenze del "nuovo" gesto del Cristo defunto sarebbero state di incalcolabile portata, in una storia lunghissima che include, fra moltissimi esempi, la Deposizione di Caravaggio ai Musei Vaticani (1602), e il Marat di David a Bruxelles (1793). Ma è davvero così? Davvero la composizione di Raffaello fu innescata da un sarcofago romano? E quale? Prima di andare avanti, vorrei ricordare il passo del De Pictura di Leon Battista Alberti (1437) in cui si definisce la "composizione" in pittura come «quella ragione di dipignere, per la quale le parti si compongono nella opera dipinta. Grandissima opera del pittore sarà l’istoria: parte della istoria sono i corpi: parte de’ corpi sono i membri: parte de’ membri sono le superficie». Prelevando il «braccio della morte» da un sarcofago di Meleagro e innestandolo sul suo Cristo defunto, Raffaello avrebbe dunque introdotto un’inflessione classica nel proprio linguaggio, modificando un membro (una frase) della sua istoria/discorso, onde renderla più efficace (perché più eloquente). Ma la storia come raccontata da von Salis (e da molti dopo di lui) è davvero troppo semplice. Il «braccio della morte» è di fatto usato in tutta evidenza in una lunga tradizione iconografica che, dal Trittico Miraflores di Rogier van der Weyden (c. 1440) al Compianto sul Cristo morto in uno dei rilievi donatelliani dei pulpiti di San Lorenzo (c. 1460), risale di fatto all’iconografia tardo-medievale della Pietà, il Vesperbild inventato dalla devozione e dalla mistica tedesca del secolo XIV. Nessun Vangelo menziona questa lamentazione privata della Vergine sul corpo del Figlio, che ebbe tuttavia immediata e amplissima fortuna. In essa ricorre frequentissimo il «braccio della morte», che è dunque del Cristo assai prima di Raffaello. Né possiamo pensare che gli anonimi scultori tedeschi si ispirassero nel loro Trecento a sarcogafi romani. A partire dal 1370, decine di Vesperbilder furono importati in Italia, e dettero origine alla Pietà "all’italiana", come quella di Michelangelo, in cui la cruda, "anticlassica" espressività nordica cedeva il passo a un tono più assorto, a una nuova attenzione alle proporzioni, alla "naturalezza", al "convenevole". Una stessa Pathosformel, dunque, si ritrova nell’arte antica (per Meleagro) e in quella medievale (per Cristo), con invenzione - è importante sottolinearlo - del tutto indipendente. In quel decisivo passo compiuto da Raffaello, quale fu dunque (se ci fu) il ruolo dei modelli antichi? Torniamo al De Pictura di L.B. Alberti. Dopo il celebre passo che ne abbiamo citato, segue un non meno celebre esempio di "composizione" per "membri": «Lodasi una storia in Roma nella quale Meleagro morto, portato, aggrava quelli che portano il peso, e in sé pare in ogni suo membro ben morto: ogni cosa pende, mani, dita e capo; ogni cosa cade languido; ciò che ve si dà ad esprimere uno corpo morto, qual cosa certo è difficilissima, pero ché in uno corpo chi saprà fingere ciascuno membro ozioso, sarà ottimo artefice». Nessun dubbio che questa "storia" fosse un sarcofago di Meleagro visibile a Roma. Ma quale? Tre ce n’erano al tempo dell’Alberti: un frammento oggi ai Musei Vaticani, un sarcofago già a Palazzo Barberini, e un coperchio già a palazzo Sciarra. C’è tuttavia una difficoltà: come faceva Alberti a identificare una storia di Meleagro? Sappiamo quanto arduo sia stato per secoli interpretare i sarcofagi romani: per esempio, ancora nel 1719 il sarcofago Barberini veniva genericamente descritto come rappresentazione dei «Funerali de’ Gentili Idolatri, con tutte le figure confuse e dolenti, in atto di piangere e scarmigliarsi». Di Meleagro tutti nel Quattrocento conoscevano invece (grazie alle Metamorfosi di Ovidio) la storia della caccia al cinghiale Calidonio, che anzi nell’Ovide moralisé era considerato figura della Passione del Cristo: Meleagro-Cristo, amando Atalanta (la natura umana), volle uccidere il feroce cinghiale-Lucifero. Se l’Alberti poté riconoscere Meleagro nell’uomo condotto al sepolcro, dev’essere perché nello stesso sarcofago doveva esserne rappresentata la caccia, con il cinghiale bene in evidenza. proprio quello che accade col rilievo già Sciarra che, come risulta da disegni del Cinquecento, era il coperchio di un sarcofago (ora a Villa Medici) con Meleagro in caccia al cinghiale. Dev’esser questo, dunque, il sarcofago menzionato dall’Alberti e da lui additato a modello per gli artisti. Un modello anche per Raffaello? Come si è visto, la formula di pathos del braccio inerte e pendente "languidamente" verso il suolo non richiede di per sé la conoscenza di un modello antico. Von Salis accentuava la forza del modello classico al punto non solo di sopprimere tutta la storia del motivo, ma anche di marginalizzare il più ovvio precedente della composizione di Raffaello, peraltro già citato da Pietro Selvatico nel 1854, e cioè la celebre incisione di Andrea Mantegna (c. 1470), dove lo spasimo della Vergine svenuta e assistita dalle pie compagne e la Maddalena dolorante con le braccia espressivamente gettate verso l’alto accompagnano il decisivo gruppo dinamico dei necrofori che tendono il lenzuolo. Manca tuttavia in Mantegna proprio il «braccio pendente della morte», ché le braccia del Cristo vi sono, anzi, compostamente raccolte nel lenzuolo. Per l’inserimento di questo nuovo membro (in senso albertiano) nella sua "composizione", Raffaello non aveva bisogno di un modello classico, data l’universale diffusione del motivo; ma ai sarcofagi di Meleagro egli era tuttavia assai interessato, come mostra un disegno di Oxford (noto dal Settecento come Morte di Adone), nel quale il «braccio della morte» è appena accennato, e lo studio nella composizione di figura s’incentra invece sul gesto, fortemente emotivo, della donna che prende fra le proprie una mano del defunto. questo il gesto della Maddalena nella Pala, assente non solo in Mantegna ma nella tradizione che precede Raffaello. Proprio questo gesto, invece, è presente in alcuni sarcofagi con il Trasporto di Meleagro, ed è dunque un indizio decisivo per consolidare l’ipotesi che Raffaello abbia guardato a un modello antico. Non doveva trattarsi però del sarcofago citato dall’Alberti, dove questo gesto non si trova, ma di quello già a Palazzo Barberini, dove è il pedagogo di Meleagro a compiere un gesto assai simile. Nella ricerca che portò Raffaello alla sua "composizione" finale, il modello antico, lungo la strada indicata da Alberti, ebbe un duplice significato. Da un lato, esso suggeriva per la Deposizione dei gesti (dei membri) che viravano l’espressività dell’incisione mantegnesca verso una misura ancor più anticheggiante; dall’altro, la conoscenza del modello antico ebbe per Raffaello un valore legittimante, autorizzando l’uso di quei membri (ma anche del motivo mantegnesco dei necrofori e del lenzuolo) in un registro stilistico sublime. così che, abbandonando del tutto la prima idea, Raffaello decise di rimaneggiare l’intera composizione in termini di «esprimere uno corpo morto» nel modo più alto ed efficace. La compresenza in una sola fonte (il sarcofago già Barberini) del gesto della Maddalena e del «braccio della morte» rende assai probabile che anche il «braccio della morte» innestato da Raffaello sul corpo di Cristo, pur con la sua lunga e indipendente preistoria medievale, sia stato fecondato e legittimato da un sarcofago antico, lungo una linea assolutamente "albertiana". l’assidua ricerca a monte della scelta di Raffaello che rende la sua composizione così pregnante, quei gesti (lo avrebbe detto Giambattista della Porta) così memorabili perché «forti e inusitati». Il profondo legame dell’Urbinate con il mondo antico e con la scultura funeraria pagana risultò evidente a molti studiosi del passato. All’idea di André Jolles (1921) che «il Rinascimento avesse la sua culla in una tomba» fece eco l’affermazione di von Salis (1947) che equiparò il Redentore della pala raffaellesca a un «Greco defunto». Salvatore Settis