Varie, 4 settembre 2005
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Quelli di Torino Vacatello Mariangela
Quelli di Torino, che volevano Roma capitale d’Italia, non erano in generale mai stati a Roma, non avevano la minima idea di che cosa fosse Roma.
•Un torinese che era effettivamente stato a Roma era Massimo d’Azeglio. Da giovane per imparar di pittura (e aveva pure generato una figlia con una donna sposata), poi varie volte, e da ultimo nel ’59, su incarico del re di Sardegna, per sondare l’umore del papa. Il torinese Massimo, cioè, conosceva bene Roma. Il torinese Massimo, conoscendo bene Roma, era contrario a far di Roma la capitale d’Italia.•Il ragionamento di Massimo era questo: i preti hanno talmente corrotto Roma, che un governo installato a Roma ne sarà per forza a sua volta corrotto. •Un altro contrario a far di Roma la capitale d’Italia era Gregorovius. Scrisse: «L’incommensurabile avvenimento di veder Roma discesa al grado di capitale d’un regno italiano, Roma che è la città universale da 1500 anni ed è il centro morale del mondo, di vederla divenuta la residenza d’una corte regia come tutte le altre capitali, non mi può entrare in capo».•Il “no” di Massimo a Roma capitale era diverso dal “no” di Gregorovius a Roma capitale.•Il “no” di Massimo a Roma capitale si riferiva al rischio che, con la capitale a Roma, non Roma si sarebbe fatta italiana, ma piuttosto l’Italia si sarebbe fatta romana. Il rischio che la corruzione romana infettasse il resto del paese.•A Roma, la Chiesa possedeva tutte le centosessanta chiese, tutti i conventi e centotrentasette palazzi. Le altre case e palazzi erano proprietà soprattutto degli Odescalchi, dei Doria Pamphili, dei Pallavicini e anche di vari mercanti di campagna, tra cui soprattutto il Silvestrelli. I terreni attorno alle Terme di Diocleziano e al Castro Pretorio erano dei gesuiti. Il cosiddetto Agro romano per più della metà era posseduto da poche decine di famiglie. Il principe Borghese possedeva ventiduemila ettari, gli Sforza Cesarini undicimila, i Pamphilij cinquemila, idem i Chigi. Altri ottantamila ettari erano di monasteri, chiese, luoghi pii, associazioni. In un modo o nell’altro, la Chiesa era padrona di mezzo Stato pontificio. Nella campagna esterna al cosiddetto Agro romano si succedevano appezzamenti da cinquecento-mille ettari – cioè sempre enormi – che facevano capo a nobili, cardinali, cardinali-nobili. Il capitolo di San Pietro, l’ospedale di Santo Spirito. Le corporazioni si spartivani settantacinquemila ettari, le famiglie romane centoventiseimila. Tutti costoro affittavano i campi e imponevano che li si tenesse soprattutto a pascolo, che rendeva di più e costava di meno. Si coltivava parecchio grano, ma i padroni proibivano di coltivarne troppo, perché non si voleva diminuire la quota dei prati, troppo redditizia. Questo anche se a Roma capitavano non di rado le carestie•I padroni delle terre se ne stavano a casa loro a godersi la vita. Andavano sulle terre ogni cinque-sei anni. Non era raro che nel frattempo andassero in rovina. Giocavano a carte. Bassetta, faraone, zecchinetto, macao, ventuno. La principessa Chigi s’era giocata col pizzicagnolo una villa da ventiquattromila scudi.•Il conte Borelli, che aveva sposato una venditrice di frutta. Il principe Poniatowski, che s’era trovato in casa una femmina inseguita dagli sbirri e l’aveva presa per moglie.•I prìncipi, costretti per campar la vita al loro livello e salvare le apparenze, a dare in affitto i palazzi.•Don Vincenzo Grazioli, fornaio, fatto barone da Gregorio XVI, la sera, brontolando che la cera andava a caro prezzo, scendeva dal letto per andare a spegnere le candele nell’appartamento del figlio Pio, ricco della dote dell’ultima Lante della Rovere. •I Corsini, 500.000 franchi di rendita. I Borghese, 450.000. I Boncompagni, 350.000. I Grazioli, 350.000. I Doria. 325.000. I Rospigliosi, 250.000. I Colonna, gli Odescalchi, i Massimo, 200.000. I Patrizi, 150.000. Gli Orsini, 100.000. «Non vi sono che due famiglie la cui rendita sia illimitata: la famiglia Torlonia e la famiglia Antonelli. Gli Antonelli sono i più ricchi, anche se non lo ammettono» (About).•Giacomo Antonelli, segretario di stato di Pio IX. Nato a Sonnino. Parlava ciociaro stretto. Pessimo francese. Il fratello Filippo era presidente della Banca romana. Il padre Giovanni aveva fatto fortuna dirigendo, al tempo di Pio VII, i lavori di bonifica delle paludi Pontine Torlonia andò dal papa a denunciarne i traffici. Il papa fece finta di non sentire.•Antonelli era cardinale senza essere prete (la cosa era possibile a quel tempo, ora non più). •Quasi tutti i funzionari del Vaticano (un tremila) si vestivano da preti senza essere preti. I preti veri non erano più di cento (conta dell’ambasciatore francese Rayneval).•Abito dei preti: scarpe e fibbia, calze scoperte fino al ginocchio, pantaloni corti neri, abito a falde di panno nero, bastone di figura, spesso persino il tricorno, nero e peloso, rialzato ai lati, che si portava dal Seicento.•«A Roma tutti vivono della Chiesa o vogliono viverne; tutti son preti o vogliono diventarlo; un padre di famiglia non vede per i suoi figli miglior avvenire della carriera ecclesiastica: ogni figlio di famiglia che entra negli ordini crede di avere in tasca un cappello da cardinale e, chissà, anche la tiara forse, come i nostri soldati hanno nello zaino il bastone di maresciallo di Francia. Si sa che la durata media di un Papa è di 8 anni, perciò dal cardinale all’ultimo abate ognuno attende con impazienza l’avvenimento che può donargli un trono o un vescovado. Tutti indossano o aspirano ad indossare l’abito ecclesiastico. Così, una delle cose che colpiscono di più, quando si arriva a Roma per la prima volta, è il gran numero di preti o almeno, della gente che veste il loro abito e che si vede per le strade. Niente più curioso di questi piccoli abati di ogni età e di ogni statura che vanno in giro soli o in comitiva; perché tutti gli allievi delle scuole e dei seminari portano la sottana, il tricorno e il collare» (Desmarie).•Duemilacinquecento frati, duemila monache. Le monache, di massima invisibili perché in clausura.•«“Padre Santo” disse un giorno a Pio IX un professionista di grande merito che aveva frequenti rapporti con lui, “avrei da chiedervi una grazia. Ho un figlio grande e grosso che ha poco talento, a scuola non ha combinato niente, non ha altra fantasia che di andare a caccia”. “Ho capito” interruppe il Papa, “ha tutte le qualità per entrare al nostro servizio” e gli fece dare un posto nella camera apostolica» (Negro).•Elhert andò alla posta alle tre del pomeriggio e trovò l’ufficio chiuso. Gli fu spiegato che quel giorno l’impiegato aveva avuto da fare. •Torlonia•A prendere in affitto le terre erano i cosiddetti “mercanti di campagna”. Costoro avevano fatto i soldi in qualche modo, pagavano gli affitti in un solo colpo, avevano le bestie, tenevano agli ordini centinaia di caporali, attraverso questi caporali ingaggiavano gli ultimi morti di fame, «avanzi della scomparsa servitù della gleba, mal retribuiti, mancanti di sementi, di abitazioni, di animali, di strumenti di lavoro» (Demarco). I mercanti di campagna prestavano a strozzo anche ai padroni, quando i padroni, che si rovinavano per esempio giocando o con le donne, non saldavano i debiti, si pigliavano le proprietà. All’arrivo degli italiani, i mercanti di campagna – un centocinquanta in tutto – erano la vera potenza della città, fecero presto a mettersi d’accordo con i nuovi venuti.•Tra i mercanti di campagna: il Silvestrelli,
Anteprima.
La spremuta di giornali
di Giorgio Dell’Arti.Approfitta della promozioneper abbonarti:due settimane a 1 euro!Clicca qui
• Castellammare di Stabia (napoli) 22 gennaio 1982. Pianista.