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 2005  settembre 03 Sabato calendario

JONES Edward P. Nato a Washington (Stati Uniti) il 5 ottobre 1950. Scrittore. Ha cominciato a fare lo scrittore a tempo pieno solo nel gennaio 2002, quando un dirigente di Tax Analysts, la società dove lavorava, lo chiamò per licenziarlo assieme ad altre 25 persone

JONES Edward P. Nato a Washington (Stati Uniti) il 5 ottobre 1950. Scrittore. Ha cominciato a fare lo scrittore a tempo pieno solo nel gennaio 2002, quando un dirigente di Tax Analysts, la società dove lavorava, lo chiamò per licenziarlo assieme ad altre 25 persone. Edward si buttò a capofitto nella scrittura di The Known World, il suo primo romanzo che l’editore Harper Collins stava aspettando. Per un anno visse con il sussidio di disoccupazione. Eppure il suo primo (e unico) libro, Lost in the City, raccolta di racconti sui lavoratori neri di Washington, gli era valso il Pen/Hemingway Award e un premio di 50 mila dollari dalla Lannan Foundation. Ma Jones, nonostante tutti gli incoraggiamenti ricevuti fin dal college per la sua abilità di scrittore, non aveva mai rinunciato all’impiego fisso: come telefonista o correttore di bozze. Solo dopo il successo di The Known World, tradotto in molte lingue compreso il cinese, si è dedicato a tempo pieno alla letteratura. «[...] The Known World, un monumentale romanzo storico [...] cominciò a progettare l’opera nel 1992, ripensando a un breve saggio letto ai tempi del college, poche pagine che raccontavano un fenomeno quasi sconosciuto, ma vero, della storia americana: quello dei proprietari terrieri neri che compravano schiavi neri. Jones impiegò 11 anni a scrivere il romanzo. Pubblicato nel 2003 in America [...] ha vinto prima il National Book Award e poi il Premio Pulitzer nel 2004, è stato subito salutato dai critici come un capolavoro e ha venduto negli Usa più di mezzo milione di copie. Edward Jones è un uomo sorridente e schivo, con i capelli crespi e neri spruzzati d’argento. Abita solo, non è mai stato sposato [...] non aveva passaporto [...] non era mai stato all’estero. [...] Nel 1992, quando cominciò a progettare The Known World, si mise a leggere decine di saggi sulla schiavitù per documentarsi. ”Ma quando leggevo”, racconta, ”la parte creativa del mio cervello lavorava per conto suo. Dopo dieci anni avevo scritto sei pagine del primo capitolo e sei dell’ultimo. Tutto il resto, i personaggi, gli intrecci, le storie, erano nella mia testa”. A quel punto - era l’inizio del 2002 - si mise a scrivere, e impiegò poco più di un anno per completare l’opera. Il risultato è un’epopea dove elementi fantastici e realistici si mischiano in un intreccio popolato da decine di personaggi indimenticabili. C’è William Robbins, proprietario terriero bianco, che non può neanche concepire un mondo dove la schiavitù non esista, ma che è pazzamente innamorato di una sua schiava, da cui ha avuto due amatissimi figli. C’è lo sceriffo John Skiffington, che nonostante i suoi sentimenti di cristiano, applica con crudeltà una legge che ritiene sacra. E c’è il nero Moses che non capisce le ragioni della schiavitù, ma sa prevedere come saranno i raccolti dal sapore della terra. Nell’intreccio non ci sono buoni e cattivi, ma solo figure straordinarie che soffrono in una società sull’orlo del baratro che per loro rappresenta l’unico ”mondo conosciuto”. The Known World è un romanzo scritto senza risentimento. Racconta storie crudeli, ma evita qualsiasi giudizio morale. Perché? ’La gente descritta nel libro soffre già abbastanza. Non c’è bisogno di giudizi morali. Il mio obiettivo è raccontare il dolore di queste persone. Molti personaggi sono orribili, ma mai completamente. Neanche chi possiede oltre cento schiavi e si macchia di delitti terribili. Il mio scopo non è creare stereotipi, ma descrivere la complessità di ogni essere umano [...] Molti mi fanno notare che i personaggi più forti del libro sono donne. E questo è dovuto a mia madre, che ha avuto enorme influenza sulla mia vita. Non sapeva né leggere né scrivere, ma io pensavo che in un mondo migliore sarebbe diventata una scrittrice e avrebbe raccontato la sua gente. Ho fatto quello che avrebbe dovuto fare lei [...] Non sono superstizioso, ma scrivo di gente che lo è. Mia madre bruciava i capelli che restavano attaccati alla spazzola. Pensava che se un uccello li avesse usati per fare un nido, questo le avrebbe provocato mal di testa. Il soprannaturale appartiene alla cultura della mia gente. Quella dei ghetti di Washington negli anni Sessanta e Settanta, dove sono cresciuto [...] Leggere Márquez mi ha insegnato che potevo mettere elementi di superstizione nei miei romanzi. Ricordo una donna anziana che non ha mai creduto che l’uomo sia sceso sulla Luna. Pensava che Dio non lo avrebbe mai consentito [...] Negli anni Sessanta fui molto colpito da alcuni scrittori del Sud: come Ann Petry, Paul Laurence Dunbar, Richard Wright, Gwendolyn Brooks. Poi andai al college e scoprii un nuovo mondo. Restai impressionato da Gente di Dublino di James Joyce. A quell’epoca abitavo lontano da casa e mi resi conto che la gente non sapeva che Washington, oltre che sede del governo, era un posto di quartieri poveri e periferici. Joyce mi commosse per la sua capacità di descrivere le persone normali di Dublino. Pensai che dovevo fare la stessa cosa con la gente di Washington. Ma credo che il libro che mi ha influenzato di più sia stata la Bibbia. [...] quando ero al college, nel 1969, un professore ci tenne un corso sulla Bibbia come letteratura. Era la prima volta che leggevo interamente la Bibbia. Mi colpì il modo diretto di raccontare le storie, senza troppe forzature sul linguaggio [...] Iniziai a occuparmi di politica al college, al tempo della guerra in Vietnam. Divenni radicale. Ammiravo Malcolm X. Apprezzavo il Black Panther Party, perché capiva che negli Stati Uniti, oltre al problema razziale, esiste anche quello delle differenze di classe [...] Gli americani sono un popolo che non ama pensare profondamente a niente. In molti Stati, dopo la guerra civile, i neri continuarono a essere oppressi esattamente come prima. Il Nord se ne lavò le mani. E 140 anni dopo, il problema razziale non è stato ancora superato. Perché questo è un paese che non ama affrontare i problemi con grande profondità [...] Gli americani dicono: per sconfiggere la schiavitù abbiamo fatto una guerra civile, e centinaia di migliaia di soldati sono morti, perciò dobbiamo essere assolti dal nostro peccato. Ma si tratta di un espediente. La guerra civile non cancellò né la schiavitù né il problema razziale [...]”» (Enrico Pedemonte, ”L’espresso” 8/9/2005).