L’Espresso 01/09/2005, Vittorio Malagutti, 1 settembre 2005
Sudoku Bankitalia. L’Espresso 01/09/2005. Anche Gianpiero Fiorani, nel suo piccolo, è padrone in Bankitalia
Sudoku Bankitalia. L’Espresso 01/09/2005. Anche Gianpiero Fiorani, nel suo piccolo, è padrone in Bankitalia. Non è questione di intercettazioni telefoniche. E neppure dell’affettuoso rapporto che lega il governatore Antonio Fazio con il banchiere padano. Il fatto è che la Popolare Italiana (ex Lodi) fa parte dei club dei soci di via Nazionale. Ovvero la pattuglia di banche (66 in tutto) e compagnie di assicurazione (5) che, affiancate per l’occasione dall’Inps, si spartiscono il capitale sociale della Banca d’Italia. Certo, Fiorani si deve accontentare. Ai colossi del credito nazionale come Banca Intesa, Sanpaolo Imi, Capitalia e Unicredito fa capo una quota complessiva non lontana dal 70 per cento. A Lodi invece è parcheggiata una partecipazione dell’1,22 per cento. Solo che la banca lombarda ha trovato il modo di cavalcare alla grande anche questa voce di bilancio, altrimenti di peso trascurabile. In base ai conti della Popolare Italiana, infatti, l’1,22 della Banca d’Italia vale addirittura 58,7 milioni di euro. Applicando lo stesso criterio al 100 per cento del capitale si arriverebbe a 4,8 miliardi. un record. Nessun altro istituto di credito italiano attribuisce un valore così elevato alla società per azioni guidata da Fazio. Bnl, la più generosa in materia, si spinge poco oltre i 4,1 miliardi. Banca Intesa controlla il 27,17 per cento dei capitale, che in bilancio, però, pesa solo 433 milioni, cioè poco meno di 1,6 miliardi per l’intero capitale. Unicredit valuta il suo 10,98 per cento non più di 55 milioni. Una cifra inferiore a quella indicata da Fiorani per l’1,22 per cento. Per non parlare di altre banche come Carige o Monte dei Paschi. Nei loro bilanci i titoli Bankitalia sono iscritti per poche migliaia di euro, sostanzialmente al valore nominale. Insomma, un rebus: banca che vai, valutazione che trovi. Sembra una questione puramente contabile. A ben guardare, non è proprio così. Sull’onda dello scandalo che ha travolto la credibilità di Bankitalia è probabile che arrivi presto in Parlamento l’ipotesi di una riforma organica della massima authority creditizia nazionale. E dopo la riunione dei Cicr (Comitato interministeriale per il credito e il risparmio) di venerdi 26 agosto il governo dovrebbe cominciare a esaminare le linee generali di un intervento auspicato a destra come a sinistra. In cima alla lista delle novità, insieme all’introduzione del mandato a termine per il governatore, non dovrebbe mancare anche un cambiamento radicale degli assetti proprietari della Banca d’Italia. La soluzione che incontra i maggiori consensi tra gli addetti ai lavori sarebbe il trasferimento dei capitale allo Stato, per la precisione al Tesoro. Questa operazione avrebbe l’effetto di allineare l’Italia ai maggiori Paesi europei, come Francia, Germania e Gran Bretagna, dove il capitale della banca centrale risulta per intero in mano pubblica. Va controcorrente soltanto il Belgio, dove la banca centrale è addirittura quotata alla Borsa di Bruxelles. Il controllo, però, resta nelle mani dello Stato, mentre il flottante è inferiore al 50 per cento dei capitale. In prospettiva, quindi, anche il governo italiano potrebbe decidere di comprare la Banca d’Italia. C’è anche una strada alternativa. Più di un esperto suggerisce che le fondazioni bancarie, ricchissime di liquidità, potrebbero avere un ruolo nel cambio di proprietà di Bankitalia, sull’esempio di quanto avvenuto di recente con la Cassa depositi e prestiti. Sulla carta ambedue le strade (passaggio al Tesoro o intervento delle fondazioni bancarie) appaiono percorribili. Se non fosse che, in pratica, per statalizzare la Banca d’Italia, o per venderla alle fondazioni, è indispensabile fissare un prezzo d’acquisto per le quote controllate dagli attuali azionisti, cioè banche, assicurazioni e Inps. E allora, alla fine, l’operazione finirebbe per avere ricadute importanti sui bilanci dei soci. Qualche istituto di credito potrebbe incassare ricche plusvalenze cedendo le proprie quote ai prezzi fissati dallo Stato. Altri, come la Popolare Italiana o la Bnl, rischiano di chiudere in perdita l’operazione. Resta aperto un interrogativo di fondo, il più importante di tutti: quanto vale Bankitalia? L’istituzione di via Nazionale è certamente una società sui generis, con compiti del tutto particolari. In bilancio, per esempio, figurano all’attivo le riserve auree dello Stato (2.400 tonnellate di metallo giallo) e quelle valutarie, i crediti per svariati miliardi di euro verso le banche e la pubblica amministrazione. Al passivo invece troviamo le banconote in circolazione (84 miliardi di euro) e i depositi del Tesoro e delle banche. Di certo, pronosticano gli esperti, non sarà facile trovare dei criteri inattaccabili per gestire un’operazione con pochi precedenti nel mondo, cioè la vendita di una banca centrale. La questione, però, è più che mai d’attualità. Ad aprire il dibattito il 31 maggio scorso, in occasione dell’ultima assemblea della Banca d’Italia, è stato proprio il maggiore azionista di via Nazionale. Quel giorno Giovanni Bazoli, presidente di Banca Intesa, prendendo la parola dopo la relazione del governatore, ha rotto un tabù. Per la prima volta un grande banchiere si è dichiarato disponibile a uscire dall’azionariato di Bankitalia, a tagliare quel nodo che, con un’anomalia tutta italiana, lega insieme il controllore e i suoi controllati, proprietari della grande maggioranza del capitale dell’authority creditizia. Bazoli, peraltro, si è affrettato ad aggiungere che l’assetto proprietario dell’istituzione guidata da Fazio ”non consente ai partecipanti di esercitare la benchè minima interferenza sulla composizione degli organi di vertice della banca centrale né tanto meno sulla gestione della stessa”. In effetti, ai soci spetta l’elezione, attraverso le sedi regionali, dei 13 membri del Consiglio superiore della Banca d’Italia. A sua volta il Consiglio superiore, nomina e revoca il governatore, il direttore generale e i due vicedirettori generali. Tutto questo sulla carta, in base a quanto prevede lo statuto. Nei fatti nomine e revoche dei vertici operativi di Banca d’Italia avvengono con un meccanismo di concertazione che coinvolge il presidente della Repubblica, il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia. E anche i membri del Consiglio superiore, formalmente eletti dagli azionisti, in realtà vengono designati su indicazione del governatore. Un meccanismo complesso, quindi, che però, sulla base di un tacito consenso tra le parti, sembra tagliar fuori i soci privati, banche e assicurazioni. ’Resta l’anomalia di un’authority di proprietà dei suoi vigilati”, avverte Nerio Nesi, ex presidente della Bnl, deputato dello Sdi, che in questi giorni sta completando uno studio sulle possibili linee di riforma di Bankitalia. ”E poi”, aggiunge Nesi, ”non è detto che in futuro gli azionisti rinuncino per sempre ad esercitare i poteri che vengono loro attribuiti dallo statuto”. Del resto le vicende di queste settimane, con il governatore investito dalle polemiche e sfiorato da un’inchiesta penale, sembrano rimettere in discussione molte certezze del passato. Basti pensare che di recente più di un commentatore ha evocato la possibilità di una riunione straordinaria del Consiglio superiore per la revoca del mandato a Fazio. Un’eventualità che soltanto sei mesi fa sarebbe sembrata fantafinanza. Ma i tempi cambiano e anche l’intreccio azionario tra l’authority e i suoi controllati in fondo non è altro che il risultato perverso di un’evoluzione storica che parte da lontano. Per la precisione dal 1936, quando il governo fascista varò la riforma dello statuto della Banca d’Italia, nata nel 1893. In base a quella legge di quasi 70 anni fa, tuttora in vigore, le azioni di Bankitalia possono essere possedute soltanto da casse di risparmio, istituti di credito di diritto pubblico e banche di interesse nazionale, altre società per azioni bancarie, istituti di previdenza e istituti di assicurazione. A quell’epoca gli enti compresi in queste categorie erano praticamente tutti a controllo pubblico. E quindi il legislatore raggiunse il suo scopo. Cioè quello di mantenere l’istituzione di via Nazionale sotto il controllo dello Stato. Adesso non è più così. L’onda lunga delle privatizzazioni, innescata nel 1990, ha rivoluzionato gli assetti del sistema bancario. Gli istituti di interesse pubblico e le banche di interesse nazionale hanno cambiato natura finendo sotto l’ombrello di grandi gruppi privati, così pure quasi tutte le casse di risparmio. Risultato: Banca d’Italia adesso fa capo a capitali privati. Con buona pace dell’articolo 3 dello statuto dove si legge che ”in ogni caso dovrà essere assicurata la permanenza della partecipazione maggioritaria al capitale della Banca d’Italia da parte di enti pubblici o di società la cui maggioranza delle azioni con diritto di voto sia posseduta da enti pubblici”. Sembra difficile far rientrare in queste categorie gruppi creditizi come Banca Intesa, Unicredito, Capitalia o Sanpaolo Imi, attuali soci di larga maggioranza di via Nazionale. Senza contare che, in teoria, queste banche potrebbero prima o poi fondersi con grandi istituzioni straniere. E allora sarebbe in pericolo addirittura l’italianità di Bankitalia. Vittorio Malagutti