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 2005  agosto 26 Venerdì calendario

Sandrelli che Leonessa. La Stampa 26/08/2005. Venezia. E’ stata un’idea bellissima quella di dare uno dei Leoni alla carriera della 62° Mostra di Venezia a Stefania Sandrelli: 59 anni, 44 di cinema, 107 film con i maggiori registi italiani, un’attrice molto brava e duttile, una bellezza radiosa, sensuale, vitale

Sandrelli che Leonessa. La Stampa 26/08/2005. Venezia. E’ stata un’idea bellissima quella di dare uno dei Leoni alla carriera della 62° Mostra di Venezia a Stefania Sandrelli: 59 anni, 44 di cinema, 107 film con i maggiori registi italiani, un’attrice molto brava e duttile, una bellezza radiosa, sensuale, vitale. E anche altro: un grande carattere. Fingendosi arrendevole («cera molle», la chiamavano da ragazza), ha sempre fatto quello che ha voluto, nella carriera come nella vita privata: trasgressiva senza proclami, con grazia allegra e leggera, ardita senza paure nè vittimismi, libera sempre. Fingendo (oppure no) di vivere alla giornata, spensierata e ridente, ha infranto tabù (come dimenticare il suo piedino bianco e paffuto da bambina piccola che stuzzicava il marinaio della barca nel finale del primo film «Divorzio all’italiana» di Germi, 1961; come dimenticare il ballo voluttuoso e stretto con Dominique Sanda nel «Conformista» di Bertolucci, 1970; come dimenticare «La chiave» di Tinto Brass, 1983?) è andata contro il perbenismo italiano dei suoi anni iniziali, è passata intrepida da maestri storici e meravigliosi come Manoel de Oliveira («Un film parlato», 2003) a registi ragazzi di poca esperienza e di molta passione. Adesso è nonna di quattro nipotini. Intorno ai suoi amori sono sempre nate molte leggende, ma a parte eventuali avventure precarie gli uomini che hanno davvero contato nella sua vita sono appena tre: Gino Paoli, padre di sua figlia Amanda («Lui aveva ventisette anni e io quindici: lo vedevo un po’ come un padre, ma non mi ha insegnato niente perchè voleva che io rimanessi quella che ero, una ragazzetta»); l’ex marito Nicky Pende; Giovanni Soldati con il quale vive da molti anni. I primi piccoli amori (a dieci anni con il coetaneo Niccolò de Larderel, a quattordici anni con un play boy da spiaggia venticinquenne, poi con Luigi Tenco che «era una persona molto umana e sensibile, mi ha sempre voluto aiutare ma non gli ho voluto bene, devo dire») erano soprattutto divertenti, per una ragazzina che a sette anni aveva perduto il padre proprietario di un albergo-pensione a Viareggio all’angolo della via San Martino, che adorava il cinema (film allora preferiti, «Papà Gambalunga», «Il collezionista») e che desiderava fortemente fare l’attrice. Anche ora, dopo tanto lavoro, per lei recitare «non nè penoso o faticoso, è una cosa normale». Le è capitato una volta soltanto di rinunciare a un film non per sua volontà: era «La noia» di Damiani, tratto dal romanzo di Alberto Moravia, poi interpretato da Catherine Spaak, e Gino Paoli non volle assolutamente, giudicava il film indecente, la minacciava «piuttosto non ti faccio uscire da questa stanza per tre mesi». Soltanto da piccola (la madre la chiamava Sciupatina, la nonna la prendeva in giro per il naso all’insù, «Naso che guarda il tetto, ha qualcosa più del maledetto») si sentiva brutta a confronto con il fratello Sergio, riccioli d’oro, bello, forte. Non si è mai piaciuta granchè. Neppure i soldi le piacevano («invecchiano, fanno subito di te una persona vecchia»); le piacciono cerimonie, processioni, le piace leggere la Bibbia, però «la Chiesa l’ho sempre considerata dal punto di vista folcloristico»; le piaceva «Topolino» a cui era abbonata; non le piace pensare all’avvenire. E’ una gran donna: insieme con Mina, ha anticipato comportamenti autonomi e liberi, senza pregiudizi e senza eccessi, che sarebbero poi diventati patrimonio di tante donne del mondo. E lei sarebbe diventata un modello: una donna che non ha troppa paura di invecchiare nè cerca di fermare il tempo con il bisturi, una donna non immeschinita dall’avidità di danaro nè dal compromesso, una donna che dà l’impressione di fare soltanto quello che le piace e non quello che conviene. E’ anche un’attrice a volte fantastica, straordinatamente dotata della qualità essenziale per il cinema, una fotogenia perfetta: basta ricordare non solo i film, ma le storica fotografia che Elisabetta Catalano le fece nei Settanta, un nudo frontale con i capelli volanti e le mani intrecciate a coprire il piccolo seno, con i dolci occhi lontani. «Io la conoscevo bene» di Antonio Pietrangeli, 1964, «C’eravamo tanto amati» di Ettore Scola, 1974, «Mignon è partita» di Francesca Archibugi, 1988, sono forse i film in cui ha saputo esprimere al meglio la bravura, la gaia malinconia e quelle virtù tanto rare nelle dive che sono una simpatia contagiosa, un coraggio intelligente. Lietta Tornabuoni