Varie, 30 agosto 2005
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Pirelli Leopoldo
• Velate (Varese) 27 agosto 1925, Portofino (Genova) 23 gennaio 2007. Industriale • «[...] uno dei capitani d’impresa che hanno accompagnato lo sviluppo del Paese fino a essere una delle maggiori potenze industriali mondiali. [...] l’anima di quella borghesia imprenditoriale e liberale, erede di una grande tradizione industriale, cominciata dal nonno Giovan Battista nel 1872, presa in mano nel 1965 e mai completamente lasciata. Dire Leopoldo Pirelli a Milano è dire lavoro, crescita, senso del sociale e del dovere: ”Ogni età ha i suoi doveri, alla mia tocca quello di ritirarsi dal proscenio. E io oggi considero un privilegio il poter adempiere tranquillamente a questo dovere”. Questo disse nel maggio del 1999 quando lasciò anche l’ultima carica, quella al vertice di Pirellina. Per due volte nella stessa frase ricorse al verbo ”dovere”, che ha caratterizzato i suoi 50 anni passati a fare di Pirelli uno dei grandi nella gomma, nei cavi, e negli pneumatici. [...]» (d. ma., ”Corriere della Sera” 30/8/2005). «Per mezzo secolo è stato in prima linea, ha avuto momenti di gloria e momenti difficili, ha combattuto battaglie e affrontato tempeste, a tu per tu coi potentati nazionali e del mondo intero (l’attività del gruppo si svolge per quattro quinti fuori d’Italia). [...] a 16 o 17 anni di età (c’è solo qualche cenno fugace in pubblicazioni ormai ingiallite) ha aiutato vari ebrei a emigrare in Svizzera per sfuggire alle persecuzioni fasciste, conducendoli per sentieri a lui noti oltre confine, senza dubbio con notevole rischio personale. Papà Alberto, allora, era un uomo importante, aveva contatti frequenti coi ministri, con lo stesso Mussolini. Lo sapeva, il papà? ”Credo di sì”, risponde Leopoldo. Antifascista, dunque? Non diamoci arie: ”Ero così giovane, allora: lo facevo per sport”. [...] Come industriale, crescendo, non si è tuttavia conquistato la fama di uomo avventuroso. La sua fama è un’altra, quella di uomo integerrimo, di gentiluomo all’antica. [...] La sua carriera aziendale è stata raccontata tante volte: un umile inizio dalla gavetta, qua e là negli stabilimenti e negli uffici del gruppo: la famosa scrivania davanti a quella del padre, per guardare (per lo più in silenzio) e per imparare; poi, nel 1959, l’infarto del padre, la necessità da un giorno all’altro di cambiare scrivania, di presiedere la prima assemblea degli azionisti; infine, a partire dal 1965, ufficialmente la direzione del gruppo. Ebbene: in tutti questi anni, fra tante storie di tangenti, fra tanti processi a carico di questo o di quello, mai l’ombra di un sospetto su di lui. [...] la filosofia di Leopoldo mette al primo posto, mi sembra, la solidità dell’azienda, la sua prosperità, il suo ampliamento attraverso gli anni, e ciò richiede talvolta investimenti la cui redditività è differita nel tempo. Il rapporto con l’azionista non è l’unica stella polare del suo universo. [...] Si trattava di difendere una cittadella che poteva anche non piacergli del tutto, così com’era, ma che gli piaceva sempre di più degli attaccanti. Gli attaccanti, nella battaglia più famosa, furono Giuseppe Petrilli ed Eugenio Cefis; la cittadella era la chimica italiana, cioè Montecatini ed Edison, poi fuse in Montedison. Storia di ieri. Ma quanti interessi furono coinvolti, finanziari e politici, e perfino giornalistici, essendosi accesa la lotta intorno al Corriere della Sera. ”Si formò un tavolo”, ricorda Pirelli. ”Da una parte sedevano Petrilli e Cefis; dall’altra, Gianni Agnelli e io. E si discuteva”. Bisognava decidere la presidenza di Montedison. Perché tanta resistenza contro l’industria pubblica? Perché una guerra così accesa contro chi la rappresentava? Gianni Agnelli racconterà la sua storia; Leopoldo Pirelli dice che a lui, Pirelli, non piaceva un costume che risaliva a Enrico Mattei, spregiudicato, avventuroso, proclive ai fondi neri. Fu una partita di fioretto, anzi di sciabola. Alla fine vinse Cefis. ”Sì, vinse Cefis”, ammette Leopoldo, e spiega perché Enrico Cuccia, da Mediobanca, seguiva la partita. A un certo punto, vista la difficoltà di giungere alla conclusione, disse: lasciamo che la presidenza di Montedison sia decisa da Guido Carli, il governatore della Banca d’Italia. A noi stava bene, accettammo. E Guido Carli scelse: Eugenio Cefis. Enrico Cuccia sapeva che lo avrebbe scelto, quando suggerì il suo arbitrato. Cuccia voleva Cefis, dunque. Perché? Lo si è sempre dipinto come il difensore del capitalismo privato, delle grandi famiglie. In realtà Cuccia è un personaggio complesso. Allora aveva una sconfinata fiducia in Cefis, lo riteneva un uomo straordinario, e puntò su di lui. Agnelli e Pirelli incassarono e tornarono a occuparsi di automobili e di pneumatici. [...] ”avevamo tutto sommato una convinzione in comune, quella che fosse opportuno tentare il centro-sinistra, democristiani più socialisti. Ci capivamo. Peccato che un giorno mi abbia detto: ”Lei non conosce il dottor Freato, caro ingegnere!’. In effetti non lo conoscevo, me lo presentò. Sereno Freato mi accompagnò verso la porta. Si sa che cosa soleva chiedere”. Centro-sinistra coi socialisti. Quindi con Bettino Craxi, dopo Francesco De Martino. Milanese Craxi, milanese Leopoldo: come andava il rapporto con Craxi? ”Quando ci si incontrava da qualche parte lui diceva, ”Ciao, come stai!’, e io regolarmente rispondevo: ”Buongiorno, presidente’”. E gli altri? ”Fanfani non aveva alcun Freato da farmi conoscere, da quel punto di vista era ineccepibile. Però con lui non c’era colloquio, parlavamo linguaggi diversi”. Uno era laico, l’altro cattolico. ”Andreotti è sempre stato di cortesia ineccepibile, ma non c’era un gran colloquio neanche con lui”[...] il mestiere di Leopoldo consisteva nel destreggiarsi fra sindacato e politica, all’interno di un discutibile capitalismo pubblico e privato, per guidare il gruppo fondato dal nonno, Giovanni Battista, ampliato e proiettato nei cinque continenti (come l’impero di Carlo V) da papà Alberto e da zio Pietro, infine ereditato da lui, lo abbiamo detto, nel 1959 in modo informale, nel 1965 in modo ufficiale. C’era allora al timone una triade famosa: ”Gigi Rossari, il tecnico; Franco Brambilla, l’entusiasta; Emanuele Dubini, il buon senso, tre amministratori legati da grande amicizia fra loro, lavoravano insieme, andavano in montagna insieme, si stimavano e si volevano bene”. Secondo le buone regole di un’imprenditoria familiare, all’antica. C’era anche Vittorio Rostagni, ”lo champagne”, l’uomo dei rapporti con l’estero, brillante, estroverso. Tutti avevano conosciuto il nonno: quello che riteneva suo diritto portare a casa il venti per cento degli utili, e chiese poi il dieci per cento per ciasc’no dei figli, Alberto e Piero, precisando in occasione del matrimonio di Alberto: " un uomo che conosce tante persone, che riceve tanti ospiti, la società dovrà accantonare una somma di denaro per consentirgli di mettere su casa”. La necessità di vendere il grattacielo Quanta strada, da allora: l’espansione, le alleanze azionarie, la costruzione del grattacielo famoso e bellissimo, i tentativi di fusione in America e in Germania... Una storia variegata, eccitante, talvolta tragica. Vi furono mai periodi in cui il gruppo procedeva tranquillo, come un’automobile in quinta marcia sull’autostrada? Leopoldo sorride: ”No, in autostrada non si va mai”. Vi furono crisi, più di una. La peggiore venne dopo l’autunno caldo, dopo il ”69. Furono necessarie alcune decisioni dolorose. Il grattacielo fu venduto. (Ricordo anche che furono abolite, gesto simbolico, le automobili aziendali per i dirigenti). Ogni crisi fu superata, senza angoscia. Ogni capo di azienda sa che ci sono alti e bassi. Perché i tentativi di fusione, allora? Per ragioni di dimensione. L’industria europea del pneumatico ha concorrenti temibili, in America e in Giappone. L’europeo più illustre del settore, Francois Michelin, sembrava il più preoccupato. Al punto da incoraggiare i concorrenti europei a mettersi insieme, per rafforzare la competitività. Sarebbe stata concepibile una fusione fra Pirelli e Michelin con l’esito scontato che Michelin avrebbe prevalso? ”Non se n’è mai parlato, non si è mai arrivati a una proposta. Una prospettiva del genere, però, era nell’aria”. Leopoldo la avrebbe accettata? ”Forse sì, purché alla testa del gruppo, sia pure unificando la guida industriale, rimanessero due finanziarie di controllo, distinte e paritetiche”. Per nazionalismo? ”No: per pirellismo”. Comunque non se ne fece nulla. Il gruppo Pirelli tentò tre operazioni di ampliamento: Dunlop, Firestone, Continental. L’ultima fu fatale, per Leopoldo. Perché fallirono, tutte e tre? ”L’operazione Dunlop fu sfortunata: quando andavamo bene noi andavano male loro, e viceversa. Vi fu inoltre l’errore di un comando unificato, che non funzionava”. Firestone, società americana, fu il secondo tentativo di acquisizione: entrarono in scena i giapponesi di Bridgestone, il prezzo salì alle stelle, sarebbe stato un errore pagarlo. Nessun pentimento per non averlo pagato. La perdita di Firestone portò tuttavia come rivalsa all’acquisto di un’altra società americana, Armstrong, e quello sì, fu un errore. Tirannia di una madre Infine, Continental: la tragedia. Pirelli tentò di comperarla, si indebitò, non riuscì nell’intento e si trovò a mani vuote, coi debiti. La presidenza operativa di Leopoldo, come conseguenza, ebbe nel 1996 una fine anticipata. Perché andò male? Leopoldo ne parla con serietà, senza recriminazioni, si limita a parlare dei suoi errori, che furono due. Si accontentò delle assicurazioni del capo dell’Aufsichtsrat, trascurò il Vorstand, sottovalutandone l’importanza (le società tedesche sono rette da due consigli distinti, quello di sorveglianza e quello di gestione); e lasciò che ai tedeschi fosse consegnata una descrizione del suo gruppo che non era esatta (naturalmente a sua insaputa). Ciò alimentò le critiche e le resistenze dei tedeschi. Acqua passata. [...] ”I miei genitori erano due personalità profondamente diverse l’una dall’altra, anche se legatissime fra di loro. Il papà era uomo aperto a tutto, pieno di comprensione di fronte a chiunque. La mamma era una piccola tiranna, non ammetteva visioni e soluzioni diverse dalla sua... Io, ultimo arrivato fra i figli, fui trattato anche troppo bene. Ricevetti una preparazione, diciamo così, dal basso, cominciando a lavorare in posizioni modeste, come contabile, come capo reparto in fabbrica, e dall’alto, quando andai a sedermi davanti a papà, nella stanza della presidenza. Quale strada sia migliore per allevare un delfino, non lo so. Si dovrebbe giudicare dal risultato. Fu buono o cattivo, nel mio caso? Dal punto di vista dell’impegno non mi faccio alcun rimprovero. Magari fu anche eccessivo. Io non sono uomo di fantasia, vedo i problemi uno a uno, magari al capo di un’azienda sarebbe utile in certi momenti, allontanandosi di qualche passo, una visione d’insieme. [...]”» (Piero Ottone, ”L’espresso” 27/5/1999). «[...] è anche il padre del ”rapporto Pirelli”, messo a punto con il contributo del centro Einaudi e della Fondazione Agnelli. Con il Rapporto Pirelli, nel 1970 la Confindustria seppellisce il passato. Prende atto del cambiamento del Paese, inaugura il disgelo con i sindacati dopo i decenni di muro contro muro, dialoga con le forze politiche da posizioni di crescente distacco, affronta i temi strutturali dell’economia. Al suo interno, da una struttura autoritaria, di tipo corporativo, passa a una rappresentanza molto più recettiva delle influenze della base; dà un forte ruolo istituzionale ai giovani, repressi nel resto del Paese dopo il ”68 [...]» (’diario” 5/12/2003 - La meglio gioventù - Accadde in Italia 1965-1975).