Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2005  agosto 26 Venerdì calendario

Il fascino discreto dei falsari. Repubblica 26/08/2005. Come molti autodidatti, Pico Cellini aveva la tendenza a trasferire in teorie l´immensa esperienza e la sua lunga pratica nel sottobosco del mercato dell´arte, che poi in Italia tanto sottobosco non era

Il fascino discreto dei falsari. Repubblica 26/08/2005. Come molti autodidatti, Pico Cellini aveva la tendenza a trasferire in teorie l´immensa esperienza e la sua lunga pratica nel sottobosco del mercato dell´arte, che poi in Italia tanto sottobosco non era. La più sperimentata tra queste teorie che aveva assunto i connotati di una costante antropologica aveva un nome: «Il tappetino» e diceva: «Non era quasi mai la qualità del falso a spingere definitivamente il compratore all´acquisto, ma l´apparato scenico connesso alla vendita, che trasformava l´oggetto in questione in qualcosa di simile ad un mito, sia pure fasullo (ma il compratore non se ne avvedeva che era fasullo)». Stiamo parlando di anni prima della Seconda Guerra Mondiale, quando non esistevano metodi scientifici per accertare l´imbroglio o erano primitivi e non sicuri. L´expertise, un´invenzione geniale di critici e storici dell´arte per guadagnare finalmente dieci volte tanto il loro magro stipendio statale, in realtà certificavano solo se stesse e molte erano dubbie: chi non ricorda i famelici mercanti con le dichiarazioni di autenticità in tasca in attesa dietro la porta della stanza dove il grande Roberto Longhi stava giocando a poker o a un altro gioco d´azzardo? Quando aveva finito le fiches sul tavolo, l´illustre critico era capace di firmare qualsiasi cosa. Subito dopo la Prima Guerra Mondiale circolavano ancora nel mondo dell´arte personaggi in via di estinzione, già visti in altre epoche, a metà tra i venditori di lozioni e i cagliostri di provincia: inventori e incantatori di attitudini così teatrali che oggi sarebbero insopportabili e provocherebbero l´effetto contrario. Ma che allora affascinavano come i guru del tipo «a me gli occhi» arrivati dal Caucaso o dall´Armenia particolarmente convincenti per tutto un settore femminile. All´epoca Pico non aveva ritrovato e restaurato il Giuditta e Oloferne di Caravaggio e La negazione di Pietro sempre del Caravaggio e non aveva sfidato l´intero corpo accademico di sovrintendenti e conservatori italiani delle Belle Arti, liquidando La Fornarina attribuita a Raffaello, come un falso evidente, mettendo alla gogna due fondioro che stavano ai Tatti, portati addirittura da B. B. cioè da Bernard Berenson. Pochi conoscevano veramente le sue capacità perché aveva una fama che non andava oltre un certo giro e Pico poteva operare con quella libertà che più tardi gli sarà difficile riavere. Tra questi falsari melodrammatici, il più dotato era un levantino: si chiamava Venizelos, come l´uomo politico greco. Era nato a Istanbul e prima di sbarcare in Italia aveva vissuto a Smirne, uno dei due o trecentomila greci discendenti da quelli ionici che abitavano le coste della Turchia da 2500 anni. Nel ´22, quando i duri fantaccini anatolici guidati da Mustafà Kemal presero d´assalto la stupenda città dell´Egeo venne salvato - diceva lui - da un intervento di San Spiridione e imbarcato su una nave inglese. Durante i quattro anni di occupazione alleata di Istanbul, da lui ricordata come il periodo più avventuroso e proficuo della sua vita, era riuscito a mettere insieme una somma non indifferente, taglieggiando gli aristocratici russi bianchi in fuga dai bolscevichi, che viaggiavano vendendo i gioielli e le icone di famiglia. Almeno questa era la leggenda che lui propalava, molto simile a decine di altre e anche molto dubbia: se tutti i gioielli in circolazione sul Bosforo fossero stati veramente di personaggi della corte dei Romanov, questi aristocratici dovevano camminare lungo i saloni del Palazzo d´Inverno piegati sotto il peso di decine di chili di collane di dubbia fattura. A Roma una vittima di Venizelos era un banchiere per bene, una specie rarissima in ogni tempo, che Pico aveva conosciuto casualmente e che cercava di difendere dagli imbrogli dei suoi due figli lazzaroni. «Questi ragazzi, già grandicelli, andavano spesso a Parì a fare lo sci sci, dicendo che uscivano con delle ragazze perbene», raccontava Pico. «Invece erano puttane, che avevano adocchiato i polli e li portavano nei locali per i pranzi "alla russa" che poi i proprietari non erano russi ma georgiani. Certi briganti con baffoni che facevano pagare ogni bicchiere di "cristallo" gettato nel caminetto. Finiti i quattrini i lazzaroni andavano dai rigattieri a comprare un "Perugino" o un "Canaletto", avendo come unica autentica quella di Venizelos. La galleria del banchiere, sistemata in una villa dalle parti della Stazioni Termini, era composta tutta di falsi. Non c´era nemmeno un dipinto autentico, avrebbe stonato. Veniva regolarmente visitato solo da altri banchieri e da uomini politici che conoscevano solo un nome, Bouguereau, il re dei pompiers. Così molti dicevano: "Bello bello, sembra Bouguereau". «Venizelos abitava vicino a Piazza della Libertà in un villino liberty in compagnia di due ragazze, lui diceva due nipoti. Una si chiamava Fifì, bruna, carnale portava i capelli come la Turandot a giri concentrici in modo da formare una torre. Si faceva chiamare contessa. Un giorno le dissi: "Contessa, sembra proprio la Turandot" e lei: "Sì perché semo orientali". Disse proprio così: "Semo orientali". Ad oriente di Frosinone. Lo zio, cioè Venizelos, aveva tra le mani una copia di Leonardo, restaurata più volte. I restauratori li conoscevo tutti e stavano sempre lì a dipingere modifiche sotto i comandi suoi: "Tiri giù, tiri su, più morbido, più sfumato". Una volta uno gli rispose: "Se sapessi fare come Leonardo mi metterei in proprio". La copia era collocata su un cavalletto coperto da una tendina in fondo a un salone. Quando il cliente entrava, se non era accompagnato dalla moglie, compariva anche Fifì adorna di veli trasparenti. Ho saputo poi che nel quartiere non la chiamavano contessa, ma "la bajadera". Girava a piedi nudi, faceva tremolare i seni sotto i veli, accendeva l´incenso, poi si accosciava per terra alla turca. Come genere eravamo tra il casino e D´Annunzio. «Verso le 4 e mezzo del pomeriggio veniva servito il tè. Era a quel punto che i clienti cominciavano a guardare le opere esposte: Susanna e i vecchioni, ratti d´Europa, ninfe e baccanti, vergini sacrificali e moltissime schiave incinte che attingevano l´acqua dalle fontane con le brocche, mostrando dei culi glorious, come dicevano gli inglesi. Se qualcuno chiedeva modeste informazioni di qualsivoglia genere alla Fifì questa mandava un trillo troppo acuto dalla gola e non diceva nulla. Venizelos comunque arrivava subito dopo, alto, bruno, con gli occhi chiari, con un viso atteggiato a sognatore che manteneva sempre fino alla fine. Sembrava un tipo capitato lì per caso e serviva a rassicurare. Poi cominciava a parlare, ininterrottamente, con un tono basso, sempre uguale, con una voce liquida come una nenia e poteva andare avanti all´infinito, non conosceva pause ed esitazioni e dopo un paio d´ore il cliente si adagiava su questa voce pronta a tutto. «Il colpo finale veniva assestato da Fifì che andava ad aprire d´improvviso la tendina del Leonardo. Chi aveva in casa un Leonardo o supposto tale o anche una copia non poteva non avere roba di pregio di casa. Il fatto che non fosse in vendita ne garantiva l´autenticità e Venizelos aggiungeva che lo aveva promesso a Goering. Il fatto curioso fu che alla fine i tedeschi comprarono realmente la Venere, attraverso la mediazione del principe d´Assia. Chi avrebbe osato dire a Goering che si era andato a scegliere un falso? Con i quattrini della vendita il greco si comprò un´abbazia abbandonata sul Canal Grande a Venezia che restaurò completamente». [***] «Il direttore del Museo cristiano del Vaticano era un uomo di straordinaria intelligenza e cultura, tedesco per metà ebreo da parte di madre ma era quella che contava in Germania durante il nazismo e così lasciò la direzione del museo di Berlino, settore medievale, e venne a Roma su invito di Papa Ratti. Era un mio grande amico, mi ero rivolto a lui per avere un parere definitivo su alcuni pezzi importanti come la croce chiamata "Il re dei confessori" sulla quale Thomas Hoving scriverà un libro che gli costò la direzione del Metropolitan. Un giorno F. il direttore del museo cristiano mi chiamò con voce disperata dicendomi che si erano fregata la croce del Sancta Sanctorum che conteneva il prepuzio del bambino, ossia il prepuzio di Gesù Cristo. «Il Sancta Sanctorum è un´ex cappella papale dell´ex palazzo pontificio del Laterano, in questo luogo sacro, per secoli, era stata custodita una reliquia medievale protetta e incapsulata da tre involucri, tre teche simili alle scatole cinesi. La prima era una scatola d´argento a forma di croce, la seconda aveva un coperchio smaltato di tipo cloisonné, la terza era gemmata con pietre dure, la maggior parte ametiste non lavorate o lavorate a ciottolo, di gusto barbarico o tardo romano. I cristiani avevano mille volte maledetto il lusso ostentato degli imperatori pagani, ma si ritrovavano ad ostentare lo stesso lusso per gli oggetti a loro più sacri. «In questa terza teca erano raccolti alcuni frammenti nella Vera Croce ridotti in polvere secondo la tradizione. Già a suo tempo Calvino aveva detto che le reliquie della Vera Croce erano così numerose che non sarebbero bastate trecento persone a trasportarle. Solo a Roma parti della Croce sulla quale era morto Gesù Cristo si trovavano a Santa Croce, a San Pietro, a San Marcello, a Santa Maria in Trastevere, a Santa Sabina, a San Paolo. Il popolino diceva che un frammento era stato murato dentro l´obelisco di San Pietro. Altri se ne trovano a Parigi nella Saint Chapelle, a Saint Germain des Prés e in altri posti compresa la camera del tesoro della regina d´Inghilterra. Ma la terza teca conteneva una reliquia ancora più rara e preziosa. Sollevando la gemma centrale di forma ovale incastonata al centro della teca si scopriva il santo prepuzio di Gesù Cristo. «La reliquia era stata rubata da un soldato dell´armata di Carlo V nel 1527, durante il sacco di Roma, recuperata miracolosamente, perduta di nuovo, ritrovata ancora e sistemata in Laterano e infine messa sottochiave nel museo cristiano del Vaticano. Una volta, in determinate occasioni, il papa apriva questa scatola e ci versava sopra un balsamo fatto di cera e profumi. Questo balsamo formava una crosta bianca sopra le gemme di tipo barbarico. E ora la scatola, reliquia preziosissima, non si trovava più. F. non si dava pace perché in termini razionali era impossibile che qualche ladro fosse venuto da fuori a rubarla. Infatti stava dentro una vetrina infrangibile fatta fare in Germania appositamente e la chiave era riposta dentro uno sportellino nello studio del conservatore. Il ladro doveva forzare lo studio, scansare un quadro dalla parete, scassinare lo sportellino, prendere la chiave, con questa andare ad aprire la vetrina e uscire fuori dal Vaticano». Diceva Pico che nemmeno Mandrake, con l´aiuto di Lotar, sarebbero riusciti in un´impresa simile. «F. pensò subito che il furto era stato progettato all´interno del Vaticano. Erano in molti a non amare le reliquie. Io non sarei così sbrigativo nell´eliminarle tutte. Se avessi avuto un nonno, sarebbe stato bello ritrovare, quando lui non ci fosse stato più, il suo bastone, la sciarpa, un paio d´occhiali. Sono cose che suscitano un ricordo vivo e alle quali uno rimane affezionato. Poi ci sono le reliquie come il fiato del bue e del somaro in due ampolle e allora non c´è neppure bisogno di commento. Per qualche misteriosa ragione le reliquie dei prepuzi sono particolarmente diffuse in Francia. Numerosi anni prima F. aveva avuto un´interessante conversazione con l´abbate di Charroux, nel Poitiers che aveva parlato di un culto non ortodosso. «Ma l´idea che fosse stato un furto pensato all´interno del Vaticano era solo un´illazione, vagamente blasfema del mio amico F. Due giorni più tardi mi fece un´altra di quelle telefonate concitate alle quali mi ero abituato negli ultimi tempi. "La vetrina è stata rimessa a posto da qualcuno. E´ impeccabile, ma senza la teca" disse. Gli chiesi se non si ricordava di aver dato lui l´ordine. "Non ho mai dato un ordine del genere" aggiunse, chiedendomi se era possibile vederci di nuovo. Questa volta lo trovai calmissimo, quasi gelido."L´ordine è venuto dall´alto credo. Non sanno che farsene di una religiosità devozionale, biascicante affidata non alla fede ma all´ignoranza delle plebi. I gesuiti del Seicento che andavano in Cina attraverso i passi himalayani, al confine con il grande impero di Mezzo furono fermati da un ordine perentorio dell´imperatore e non sarebbero mai passati in Cina con tutte quelle reliquie che si trascinavano dietro. Se volevano arrivare a Pechino dovevano prima sbarazzarsi di tutte quelle ossa infette, altrimenti in Cina non sarebbero mai entrati. Quella del prepuzio è una storia simile". Gli chiesi se a questo punto sapeva anche chi materialmente avesse fatto il colpo. "Non lo posso dire, ma le manderò un libro"». Un paio di settimane più tardi Pico trovò in portineria un vecchio libro di Mario Soldati. Si intitolava L´amico gesuita. Stefano Malatesta (2. Continua)