Varie, 24 agosto 2005
MENGALDO Pier Vincenzo
MENGALDO Pier Vincenzo Milano 28 novembre 1936. Critico letterario • «Ha scritto di Dante e di Boiardo, ma anche di Nievo e di Di Giacomo, di Calvino e di Primo Levi, di Tolstoj e di Hrabal, di prosa e di poesia, di critica e di critici, persino di musica e di storia dell’arte. Quando si pensa alla critica accademica sempre rigorosamente militante, il nome che spicca su tutti è quello di Pier Vincenzo Mengaldo. [...] La scommessa del critico? “È quella di cavare un’interpretazione politica anche da testi che appaiono politicamente non orientati. Questo non toglie che effettivamente l’esercizio della critica politica possa essere tanto più esteso e forte quanto più abbiamo a che fare con una letteratura esplicitamente politica. Ma negli ultimi decenni la letteratura politica, in Italia, non si vede”. Bene. Anzi, male. Gli ultimi nomi che hanno lavorato in questo senso? “Un classico del secondo Novecento in cui questo nesso è molto stretto, è Primo Levi, uno scrittore che non si sottrae ancora oggi a certe domande”. Altri? “Volponi è un caso tipico di scrittore impegnato, al quale semmai l’unica critica che si può rivolgere è che si tratta di uno scrittore tutto nero: Fortini parlava di quegli autori che vanno subito al fondo e vi restano. Ecco, Volponi è tra questi. Però, nel secondo Novecento, rimane lo scrittore più impegnato in modo giusto, cioè partendo sempre da problemi individuali: non è detto, neanche per l’estetica marxista ortodossa, che trattare di questioni individuali sia ideologicamente sbagliato, anzi”. Qualche anno fa [...] scrisse un articolo provocatorio sulla miopia della letteratura italiana rispetto alla contemporaneità. [...] “Ho l’impressione che a volte ci sia anche uno sguardo acuto sui dettagli: ma le schegge sono una cosa, mentre non vedo la capacità di descrivere un intero Paese partendo da situazioni più o meno ampie, magari individuali o psicologiche. Di solito se sappiamo qualcosa dei conflitti di un Paese lo sappiamo proprio attraverso la letteratura”. Frutto della crisi delle ideologie? “Direi crisi di una sensibilità politica, della capacità di interpretare la realtà da punti di vista politicamente eloquenti”. E altrove, l’interazione tra letteratura e politica persiste in modo creativo? “Certo, fuori d’Italia ci sono ancora scrittori che vedono la società. Penso agli autori israeliani: Yehoshua, Grossman, Amos Oz. E al Sudafrica: non solo alla vecchia Gordimer, ma a Coetzee, un grande scrittore capace di cogliere le lacerazioni del passato immediato e del presente. Per non parlare di tutto quel che non ci arriva ancora: per esempio, ho l’impressione, per il poco che conosciamo, che in Russia si stia producendo qualcosa di interessante. E poi ci sono gli Stati Uniti, dove c’è una letteratura che, nei casi migliori (Roth, De Lillo, Ellroy), ha la capacità di riflettere le complessità e le contraddizioni stratificate della società, quasi in presa diretta con il presente”. Si è detto di Levi e Volponi. E Pasolini? “Io non amo Pasolini, lo considero un grande saggista, ma la sua scrittura poetica e narrativa mi lascia molto perplesso, mi appare spesso sciatta e volontaristica”. L’opposizione con Calvino, da questo punto di vista, non si dà? “Mi pare molto discutibile. Il dovere del critico è quello di interpretare fenomeni diversi e non di sminuirne uno proponendo delle opposizioni. L’ultimo Calvino, dopo La giornata di uno scrutatore e in parte Le città invisibili, non mi appassiona. Però sulla questione dell’impegno bisogna intendersi: se Pasolini si butta carnalmente nella vita, Calvino è più rarefatto e intellettuale, ma l’attenzione alla realtà non gli viene mai meno. Palomar, da questo punto di vista, è un libro molto interessante. Bisogna ben guardarsi dal giudicarlo come uno scrittore intellettualistico ed evasivo”. Anche se risulta più facile rispetto ad altri, per esempio Vittorini, che a un certo punto entrò nel fuoco della politica:“Vittorini ha rappresentato un momento importante in tutto questo. Ma direi più come intellettuale che come scrittore. Il suo libro più bello, secondo me, è il primo, Il garofano rosso. Conversazione in Sicilia mi pare il più fragile, anche se ha fatto più testo. Ma i capolavori di Vittorini sono quelli dell’organizzatore culturale: Il Politecnico, i Gettoni. È un esempio che si rovescia negativamente sull’oggi”. Cioè? “Quale casa editrice oggi ha dei consulenti alla sua portata? Einaudi, Il Saggiatore, anche Mondadori hanno saputo utilizzare uomini del valore di Vittorini. Una delle ragioni della decadenza attuale dell’editoria è anche questa: dove sono quei consulenti? Se ci sono intellettuali nelle case editrici, sono piccoli intellettuali”. [...] Passando alla critica? “Fortini e Cases sono i rappresentanti più significativi di una critica marxista non ortodossa ma nutrita di succhi francofortesi, in Cases colorati di una prospettiva più illuminista, in Fortini nutriti di altre letture, come Simone Weil. È un modo di far critica che, pur tenendo fermo l’orizzonte marxista, dà un’interpretazione molto ricca e libera”. Qui entra anche una dimensione autobiografica o autocritica: “Per me — dice Mengaldo — anche quando l’approccio iniziale ai testi è di tipo formale, la critica che si rispetti deve sempre essere una critica politica”. Cosa che si è verificata qualche volta nel dopoguerra. “Nel ventennio dopo la guerra ha prevalso una critica assolutamente ideologica, che non vuol dire necessariamente politica, anzi. L’’eccesso di ideologia ha rischiato di soffocare l’acutezza dello sguardo critico: penso al periodo neorealistico”. Poi venne la critica strutturalista... “La semiotica e la critica formale però hanno esaurito la loro spinta propulsiva. Oggi si tratterebbe di fondare qualcos’altro. Arriviamo a risultati un po’ buffi: un critico ideologico come Asor Rosa fa il critico testuale e diventa continiano; il maggior critico semiologico italiano, Cesare Segre, insiste sulla assoluta necessità che la critica sia politica. C’è un rovesciamento curioso di posizioni. È chiaro che per me ha ragione Segre e che tutti dovremmo cercare di fare come lui. Purtroppo c’è una critica militante quasi esclusivamente giornalistica che nel tempo va peggiorando, mentre in passato era di alta qualità”. L’opzione di Mengaldo? “Continuo a credere nella critica stilistica, però non quella fine a se stessa, classificatoria o descrittiva, ma quella che attraverso lo stile vada a cercare le implicazioni psicologiche, ideologiche, storiche, politiche del testo. Credo che si debba guardare a un maestro come Auerbach”. Andare al fondo dei valori politici della letteratura, anche in tempi di crisi della politica-politica? “Certo, la qualità della politica in Italia è molto bassa. Anzi, la qualità del discutere e del contrapporre idee politiche è vicina allo zero. La crisi è quasi più evidente lì che in letteratura [...] Ho sempre pensato che o si fa lo studioso o si fa il politico. Io sarei terrorizzato dalla burocrazia della politica. Personalmente preferisco esprimere la mia politicità come studioso: è un fatto anche caratteriale, ho una specie di passione esclusiva per lo studio. Per me è un obbligo e una necessità”» (Paolo Di Stefano, “Corriere della Sera” 24/8/2005).