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 2005  agosto 24 Mercoledì calendario

Pynchon Thomas

• Glen Cove (Stati Uniti) 8 maggio 1937. Scrittore. «Esserci o non esserci. Concedersi senza remore al lettore per fare di sé il protagonista assoluto dei propri libri o nascondersi, invece, trasfigurandosi in personaggi immaginari, pseudonimi elusivi o esistenze rigorosamente appartate? Ecco un dilemma che uno scrittore non può aggirare tanto facilmente. Stabilire in quali forme e misura, e soprattutto se apparire è il tavolo sul quale gli scrittori spesso si giocano ciò che hanno da raccontare. Tutt’altro che rari sono i casi come quello dell’’niziatore del genere poliziesco in Giappone, Hirai Tari, il cui pseudonimo Edogawa Rampo significa ”quattro passi lungo il fiume Edo” ma si pronuncia ”Edgar Allan Poe”. Da qualunque parte si voglia considerare il problema, una cosa è certa: l’identità tocca nel profondo un nervo particolarmente esposto della letteratura. Altrettanto indubbio è che nessuna riflessione al riguardo può evitare di soffermarsi su Thomas Pynchon, colui che più di ogni altro nel nostro tempo ha incarnato la figura dello scrittore invisibile. Ma siccome la completa sparizione di un individuo è operazione estremamente complessa se non impossibile, nemmeno a Pynchon è riuscito di cancellare tutte le tracce. A parte le fin troppo note foto che lo ritraggono ancora ragazzo nei panni di studente universitario e marinaio, uno squarcio significativo nella cortina della sua riservatezza è stato aperto da Candida Donadio, suo agente dal 1963 al 1982. A onor del vero gli squarci sono ben più di uno. Centoventi per l’esattezza perché tante sono le lettere che lo scrittore scrisse alla Donadio nel corso degli anni e che lei ha pensato bene di vendere per una ragguardevole somma a Carter Burden, uomo d’affari, politico, mecenate e collezionista di feticci letterari. Il grande recluso ovviamente non ha gradito affatto il gesto e per bocca del proprio avvocato ha mandato a dire che non si è mai sentito di ”un agente che venda lettere di un cliente salvo dopo la morte di questi”. Il destino ha voluto che il primo a morire fosse Burden. Le lettere sono state così donate alla Pierpont Morgan Library che le ha messe a disposizione degli studiosi. Coloro i quali ottengono il permesso di visionarle scoprono che Pynchon è anche un essere umano oltre che un genio letterario. In altre parole, scoprono una persona che convive con rabbie, passioni e insicurezze in tutto e per tutto simili a quelle di chiunque altro; scoprono che perfino gli scrittori invisibili possono essere in ansia per le prosaiche faccende che assillano tanti scrittori visibili: contratti, diritti d’autore, recensioni e via discorrendo. Che Pynchon fosse umano, magari perfino troppo umano, non dovrebbe sorprendere nessuno. Tuttavia la sola idea che un simile materiale epistolare esista e sia consultabile ha un che di stonato. Carne e ossa sono orpelli che non addicono a una leggenda. E Pynchon lo è, leggenda. Si pensi a come iniziò il mito della sua irreperibilità. Era il 1963 e ”Time Magazine” stava lavorando al solito articolo sui più brillanti scrittori della nuova generazione di allora. Giustamente si pensò che un posto nell’olimpo dovesse essere riservato a Thomas Pynchon il quale aveva appena pubblicato un romanzo molto apprezzato dalla critica, V. C’era pero un ostacolo: il giovane autore non voleva assolutamente essere fotografato. Sembrava vivesse a Città del Messico e che la gente del luogo gli avesse affibbiato il soprannome di Pancho Villa per via dell’enorme paio di baffi con i quali egli intendeva nascondere se stesso e due incisivi particolarmente sporgenti. In un modo o nell’altro il fotografo del ”Time’ riuscì rintracciarlo ma se lo fece scappare sul più bello. Con la destrezza di un consumato escapista, Pynchon saltò all’improvviso su un autobus dileguandosi tra le montagne messicane. Per le sue modalità, questa fuga richiama alla memoria le scene di certi cartoni animati e in fondo è proprio così che va intesa. Ciò che rende unica la riservatezza di Pynchon non è che sia tanto estrema bensì che sia diventata col tempo una specie di forma d’arte parallela alla scrittura, un’arte che ha molto da spartire con il mondo dei cartoni animati. Si vocifera infatti che la causa originaria dell’avversione per gli obiettivi delle macchine fotografiche vada ricercata proprio nei due incisivi particolarmente sporgenti. Lo scrittore avrebbe ritenuto di non essere socialmente presentabile in quanto quei due denti da castoro lo facevano somigliare a una specie Bugs Bunny dall’aria non troppo sveglia. Poco importa stabilire se e in quale misura simili dicerie corrispondano al vero. L’essenziale è che Pynchon sia stato al gioco e che abbia contribuito ad alimentarlo disseminando la propria opera di elementi quali il cane parlante di Mason & Dixon o i rocamboleschi inseguimenti alla Gatto Silvestro e uccellino Titti di Vineland. Ma è nell’introduzione ai racconti giovanili di Un lento apprendistato che - parlando in prima persona - Pynchon diventa inequivocabile: ”Il mio atteggiamento è il seguente: voglia il cielo che i cartoni animati di Bip Bip non svaniscano mai dagli schermi”. Era perciò praticamente inevitabile che l’unica apparizione pubblica di Pynchon dovesse avvenire in forma di pupazzo disegnato. Il grande evento risale al gennaio 2004 e ha avuto quale teatro la Diatriba di una massaia infuriata ovvero una puntata dei famigerati Simpsons in cui Marge è alle prese con ambizioni di scrittrice. Dopo avere partorito un improbabile polpettone ispirato a Moby Dick che ha per titolo Il cuore fiocinato, la moglie di Homer deve risolvere il problema di trovare qualche autore famoso disposto a sponsorizzarla. Entra così in scena lui, il grande recluso. Il volto coperto da una busta di carta marrone con due buchi in corrispondenza degli occhi, Pynchon telefona a Marge proponendole di usare la seguente frase per il lancio pubblicitario: ”Thomas Pynchon ha amato questo libro almeno quanto ama le macchine fotografiche”. Neanche il tempo di mettere giù il ricevitore ed ecco l’autore sbracciarsi in direzione di alcune persone che sfrecciano in automobile davanti alla sua abitazione. ”Ehi voi”, urla. ”Fatevi una foto in compagnia di uno scrittore inavvicinabile. Oggi l’autografo è gratis. Fermi, non andate via”. solo in parte una caricatura perché a prestare la voce a questo Pynchon simpsioniano è lo stesso autore. Trattasi dunque di autentico cammeo, seppure parziale. Dopo quasi mezzo secolo di onorata ed elevata letteratura, il grande recluso si è finalmente deciso a svelare una pezzo di sé al pubblico. Ha fatto sentire tutti che suono ha la sua voce trasformandosi in un cartone animato, accettando di buon grado di entrare nel Ghota delle celebrità affiliate alle creature di Matt Groening. Il che è certamente un modo per ironizzare sul fatto che rimanere nell’ombra può rivelarsi una strategia promozionale ma è anche un modo che la dice lunga sul fatto che uno scrittore - si mostri o no - rimane comunque uno scherzo di natura o, se preferite, di letteratura» (Tommaso Pincio, ”il manifesto” 23/8/2005). «[...] l’autore di V., L’incanto del lotto 49, Mason & Dixon, Vineland. [...] pubblico d’adozione [...] gli studenti universitari. [...] V. e L’incanto hanno venduto in edizione supereconomica oltre tre milioni di copie ciascuno, e perfino L’arcobaleno, con le sue settecento pagine, funziona bene. La prima edizione va in classifica e vende 45.000 copie, a cui si aggiungeranno nel decennio successivo le 250.000 copie del tascabile. Pynchon manda a caldo un allegro telegramma al presidente della casa editrice: ”Io sono al numero otto e il mio amico Freddie è al numero due”. L’amico è Frederick Forsyth, con Dossier Odessa. Il romanzo si aggiudica addirittura il National Book Award nel 1974, ex equo con Isaac Bashevis Singer (Una corona di piume), mentre nell’imbarazzo generale il Pulitzer quell’anno non verrà assegnato, e per i lettori di Pynchon, abituati a scrutare trame e complotti, questa omissione è colma di significato. [...] La sensazione, per quella generazione di giovani lettori, fu di avere tra le mani il libro capace di rispondere al fascino irresistibile e terrificante della scienza e della tecnologia, all’ansia di un’epoca in piena accelerazione che pareva seminare dietro di sé vittime innumerevoli, cancellando con istantanea efficacia gli eventi appena passati, lo shock della guerra mondiale, dell’Olocausto, del nucleare, del maccartismo, delle rivoluzioni culturali degli anni Sessanta, e gli incubi del decennio in corso, l’eterno conflitto col Vietnam, le sfide sociali, sessuali, la presidenza Nixon, e poi la sensazione crescente di un potere occulto, pervasivo e invincibile che lasciava uomini e donne sospesi nel desiderio di qualcos’altro: un sogno, un amore, un grido, una forma di comunicazione possibile e onesta. Pynchon, nato nel 1937, rispose a tutto questo con la libertà assoluta di una voce che non si ferma davanti a nulla, che ogni cosa prova a raccontare, si tratti delle avventure picaresche di un uomo in fuga dal sistema, dello struggente avvinghiarsi di una coppia tra le macerie di Londra, del dramma di una lampadina condannata a non fulminarsi mai, dell’anatomia tecnologica del razzo V2 - che fa pensare ai dettagli di Melville sulla cetologia e sulla nave-industria Pequod -; si tratti del teatro estremo di pratiche innominabili che vanno dalla coprofagia alla manipolazione sistematica degli individui, oppure della trasmigrazione nel nuovo mondo, magari per spedire l’uomo sulla Luna, di quell’aristocrazia di tecnici e scienziati e burocrati che aveva consegnato la supremazia del potere, del terrore e della violenza alla Germania, fino alla continuità intonsa del carisma e dell’efficacia dei grandi apparati industriali e delle corporation, con lo scivolamento dalla ”pesantezza” della chimica e dell’acciaio verso l’immaterialità dell’informazione e della progressiva digitalizzazione della realtà. Allora, tenendo conto di tutto questo, e nonostante l’impressione di caos, di surrealtà, di grottesco, di satira, di allegoria che la sua opera ha dato nel corso degli anni, Pynchon con quel romanzo appare oggi incredibilmente storico, legato saldamente a un contesto preciso, quel transito oscuro e complesso tra il moderno e la contemporaneità che è stato a lungo colonizzato dalla ”guerra fredda”, da una glaciazione, da una progressiva sparizione che lo scrittore ha rappresentato sulla propria pelle, e sempre nelle sue opere, con indignata, caldissima e partecipe attenzione. E il dissolvimento più drammatico che l’autore con costanza rimette in scena, fino alle sue ultime opere, è quello delle opportunità, di quelle strade intraviste eppure mai percorse che avrebbero lasciato spazio alla diversità, al disegno dell’utopia, al fantasma della libertà. [...] Pynchon oggi, in Italia, vuol dire poco: c’è chi lo considera sopravvalutato, oscuro, noioso [...]» (Mattia Carratello, ”il manifesto” 23/8/2005).