Corriere della Sera 17/08/2005, pag.12 Aldo Cazzullo, 17 agosto 2005
«Moretti? Preferisco la serietà dei comunisti». Corriere della Sera 17/08/2005. Torino. «Quando Nanni Moretti è salito sul palco di piazza Navona a gridare in romanesco «con questi leader non vinceremo mai», d’istinto io, che con il Pci e i Ds non c’entro nulla, che ho lasciato l’Einaudi tra lo scandalo generale per occuparmi di fantascienza, in silenzio e in segreto ho preso a parteggiare per Fassino
«Moretti? Preferisco la serietà dei comunisti». Corriere della Sera 17/08/2005. Torino. «Quando Nanni Moretti è salito sul palco di piazza Navona a gridare in romanesco «con questi leader non vinceremo mai», d’istinto io, che con il Pci e i Ds non c’entro nulla, che ho lasciato l’Einaudi tra lo scandalo generale per occuparmi di fantascienza, in silenzio e in segreto ho preso a parteggiare per Fassino. I comunisti torinesi li ho sempre canzonati; ma devo riconoscere che erano gente seria. Ingenua, magari. Però avevano il senso dell’organizzazione, il gusto delle cose ben fatte. Davano un senso di compattezza. Fassino viene da quella Torino. E’ uno che ha una scuola alle spalle, e infatti, alla fine, ha vinto. Tutte queste altre cose, i no global, i movimentisti, gli antiberlusconiani indignati, non mi sono parse una gran trovata». Carlo Fruttero sfila una Gauloise dal pacchetto con la scritta «il fumo invecchia la pelle». La sua si confonde con la poltrona di cuoio. Alla fine, racconta, «il comunismo l’ho condonato. Le passioni le condono tutte. Prenda Calvino. Arrivò a Torino a vent’anni, aveva fatto il partigiano. Ci credeva davvero, poveretto. Finita la guerra era tutto un girovagare per comizi, si udivano frasi oggi incredibili, tipo "andiamo a sentire Scoccimarro a Rivoli". In quanti c’hanno creduto. Io mai, però alla mia maniera li ho sempre rispettati, all’Einaudi e fuori. Ogni tanto ripenso alle cose che sentivo dai funzionari e dagli operai del Pci, che il comunismo avrebbe invaso l’Occidente con i suoi prodotti a basso costo e l’avrebbe distrutto, guardo la Cina di oggi e mi chiedo se almeno in questo non avessero ragione loro...». «Calvino l’ho conosciuto da studente, a Palazzo Campana. Mi assalì: "Sei comunista? No? Azionista, allora? Neppure?". Non se ne capacitava. Lo ritrovai anni dopo all’Einaudi, vicino di scrivania. E ci riprovò. Un giorno, tra una telefonata e l’altra – Calvino telefonava di continuo ”, mi chiese perché non prendessi la tessera. Obiettai che avevo letto Koestler, Serge, Ambler; e poi non mi andava di rinunciare alle giacche inglesi con le pezze di cuoio, allo sherry prima di cena, a un’auto sportiva. Italo rise: "Ma no, non sono più quei tempi. Ti basterà partecipare a qualche riunione e salire sul carro allegorico del Primo Maggio". Era proprio così: la sezione einaudiana del Pci allestiva un carro. Presi tempo prima di rispondere, sperando di essere salvato dal telefono di Calvino. Suonò. Non ne riparlammo più. Poi venne il 1956, e il tempo dei carri allegorici finì». Le Gauloises oltre che nuocere alla pelle fanno venire la tosse. Fruttero è in girocollo. La finestra è aperta sui portici del centro. «Torino mi appariva un buco senza nome. Nel ’47 ottenni il visto per la Francia. Consegnavo bottiglie di sidro girando in triciclo. Poi fui cameriere, lavapiatti, operaio in un’acciaieria belga, manovale in un autoscontro nelle fiere delle Fiandre, idraulico e imbianchino in Inghilterra. Con i soldi delle prime traduzioni per Einaudi partii a piedi per Roma, con i pellegrini del Giubileo del 1950. Non per devozione, per curiosità». All’Einaudi Fruttero arriva «già completamente scettico. Non avevo alcuna propensione all’entusiasmo politico, che ho visto trascinare un’infinita di gente verso i lidi più improbabili, Mao, Pol Pot, Otelo de Carvalho, il Che. Io l’empito partecipativo l’ho sentito a malapena per la Juve». Questo non significa che Fruttero sia refrattario a una sua forma di impegno civile: attraverso la scrittura, l’ironia; la caricatura dell’on. Slucca, l’allarme sulla prevalenza del cretino. «Una volta, nel ’76, con Lucentini ci siamo pure candidati: partito repubblicano. Non fui eletto, ma presi trenta voti più di lui». Non è vero che la politica non lo interessi. «Anzi, la seguo e la leggo da sempre. Tucidide, Tocqueville, Croce. E Luigi Einaudi. Il solo, a parte Ugo La Malfa, che sia stato per me un riferimento. Sempre dalla parte giusta: l’antifascismo, la scelta dell’America e del mercato, la difesa della lira. Una sera fummo suoi ospiti a Dogliani. Un personaggio straordinario. Faceva un barolo meraviglioso. Ed era anche molto simpatico, certo più del figlio». Tutto autentico quanto scritto sul conto di Giulio Einaudi, racconta Fruttero, compresa l’arte di umiliare, la malignità di denigrare le case altrui. «Con me fu particolarmente crudele: mi ero appena sposato, avevo scelto i mobili con cura, e lui cominciò a criticarmi una poltrona, poi un quadro, quindi lo specchio». Era pur sempre Einaudi, però. «Uno che ha fatto bene il suo lavoro. Un uomo distante, ma forse così dev’essere il potere: distante, e distanziante». Gli azionisti? «E’ sbagliato pensarli seriosi, severi. Venturi era di splendido humour e di ferreo anticomunismo. Bobbio era molto spiritoso, di bella disinvoltura nella conversazione, con quel po’ di malignità necessaria». E i comunisti? «Non erano mica trinariciuti. Uomini brillanti, di charme. Vittorini era simpaticissimo. Giolitti era molto amico di Lucentini, erano stati compagni di scuola. Muscetta scriveva sciocchezze su Rinascita, però Franco e io eravamo indulgenti, ci dicevamo "guarda come ride, come parla di suo figlio". E poi gli einaudiani erano belli. Giulio sempre elegantissimo, Bollati di un’eleganza naturale». La politica non disgiunta dall’etica e neppure dall’estetica: «A Torino era naturale essere antifascisti. Non solo perché era una città operaia; anche perché aveva e in parte conserva una certa sobrietà, un certo gusto. E i fascisti invece erano brutti. Tutti neri come corvi, i fez, i manganelli, le brutalità. Orrendi». L’allarme per l’avvento di Berlusconi, Fruttero non l’ha mai avvertito. «Una reazione isterica, fuoriluogo. Ho amici posati e riflessivi cui al solo nome di Berlusconi viene la bava alla bocca. Io non l’ho mai trovato così pericoloso. Gli eccentrici sono frequenti nella politica italiana: Giannini, Pacciardi, Pannella, Bossi. Berlusconi non è mica la Thatcher, e neppure Mussolini. Con il Duce ha un solo tratto in comune: quello voleva trasformare gli italiani in guerrieri, questo li vorrebbe tutti imprenditori, luterani, equi pagatori di tasse. Il risultato è lo stesso». Franco Lucentini affiora quasi in ogni discorso. Come nacque il primo romanzo a due, «La donna della domenica». Come abbiano sempre diviso a metà non solo i diritti d’autore, ma ogni altro introito. Come abbiano cominciato a scrivere sulla Stampa. «Il romanzo era appena arrivato in libreria e Ronchey l’aveva già letto. Ci invitò a cena. Siamo diventati amici suoi e di tutti i successori. Ho il rimpianto di essermi perso Rossella: l’ho visto solo due volte, era sempre da qualche altra parte. Ho apprezzato Sorgi, uomo di grande finezza e intelligenza. E resterà indimenticabile il rapporto con Levi». Gheddafi, socio degli Agnelli, chiese il suo e il vostro licenziamento per un articolo satirico. «Non solo non ci furono licenziamenti; nessuno ci disse nulla. Né dalla Stampa, né dalla Fiat. Altrove magari saremmo stati messi al bando; non qui. It is not to done; non si fa. Solo, incontrandoci tempo dopo, l’Avvocato ci sorrise: "Quanto ci siete costati voi due...". Risposi che però gli avevamo dato l’occasione di fare bella figura. L’Avvocato scoppiò a ridere, e non ne parlammo più. Pensai: questo è un editore, questa è Torino». Aldo Cazzullo