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 2005  agosto 13 Sabato calendario

Archibugi: con Berlusconi la sinistra è troppo cattiva. Corriere della Sera 13/08/2005. «Ora dirò una cosa per cui i miei amici mi tireranno le orecchie: a me Silvio Berlusconi sta proprio simpatico, non capisco perché è odiato così

Archibugi: con Berlusconi la sinistra è troppo cattiva. Corriere della Sera 13/08/2005. «Ora dirò una cosa per cui i miei amici mi tireranno le orecchie: a me Silvio Berlusconi sta proprio simpatico, non capisco perché è odiato così. Dovremmo combattere il sistema di valori che lui ha imposto all’Italia, non la persona. Lui è quasi tenero, ostenta un grande candore e somiglia a un personaggio narrativo. Quando dice: io mi sono rovinato per voi, io passo la notte sveglio per voi, mi ricorda tanto la mia tata. Penso che la sinistra dovrebbe utilizzare una strategia meno aggressiva, sempre. Detesto l’estremismo, quello che si nutre di odio e di faziosità. Bisogna sempre capire le ragioni degli altri. Anche in televisione, anziché caldeggiare l’accademia del litigio perenne, sarebbe bello se tutti i conduttori facessero come Fabio Fazio: fa parlare una persona per volta, la ascolta e la tratta con educazione. Mah, forse la politica non fa per me: mi appassiona tanto, ma non saprei farla. Se dovessi scegliere, affiderei tutto a Tina Anselmi, il mio idolo, e a Rosy Bindi: la incontrai, quando era ministro della Sanità, a piedi, per strada, come una donna qualunque, mi fece un grande sorriso. Io credo nell’etica della gestione, un valore che va al di là delle persone e perfino degli schieramenti. Da quindici anni vivo quasi stabilmente in un piccolo paese della Toscana, una zona agricola dove vanno al ballottaggio un sindaco diesse e uno di Rifondazione, dove anche i ragazzi di Alleanza nazionale sono fantastici. Ho partorito tre figli all’ospedale pubblico di Siena, dalle nostre parti il pediatra viene a visitare i bambini anche la notte, nei casali isolati, a bordo di una jeep 4 per 4. Lo so che sembra un sogno, ma in molte regioni italiane è la realtà, forse dovremmo anche riscoprire la politica vera, quella che vuole bene alle persone, ai cittadini, e lasciare perdere le urla». Ritrovo Francesca Archibugi dopo una decina d’anni, sempre uguale, i capelli lunghi, il vestito tipo grembiulone, l’aria da ragazzina: è bello vedere che il tempo non l’ha cambiata. Ha 45 anni, ne dimostra al massimo trenta. L’appuntamento è per un aperitivo alla nuova osteria «Gusto» di via della Frezza. Lei arriva sorridente, quasi euforica. «Dopo quasi tre anni sta per partire il mio prossimo film, una storia di genitori e figli – come sempre, dai tempi di Mignon è partita mi occupo di grandi e piccoli – protagonista un ragazzo adottato che torna nel suo paese d’origine, l’India. In realtà è tutto molto più complicato, ma è meglio non raccontare troppo». Francesca è cresciuta in una famiglia «impegnata». Suo padre Francesco, docente di economia, ha insegnato in Italia e negli Stati Uniti, «e il suo migliore amico era ed è Giorgio Ruffolo. Papà mi portava a undici anni alle veglie per il Vietnam, era un socialista convinto e appassionato. Mamma, che è morta quando io avevo 19 anni, si era separata da lui e aveva sposato un secondo marito molto comunista e molto per bene. Insomma, sono cresciuta in una famiglia laica, che ritenne giusto tenermi lontano da Dio e dal sacro, una scelta che oggi penso sia stata una mancanza, credo che nella mia vita ci sia un vuoto da colmare. A metà degli anni Settanta, era impensabile che una famiglia così mandasse i figli in un istituto normale, era ovvio che finissi al liceo unitario sperimentale di Roma, una scuola incasinata che all’epoca si disse che fu creata per un desiderio di Eleonora Moro, la moglie del presidente Dc molto in linea con le teorie sull’insegnamento libero e non convenzionale di Maria Montessori. Riccardo Barenghi, che è stato direttore del manifesto ed ora scrive sulla Stampa, ha tracciato una mappa dei reduci dal Lus: oltre a Giovanni Moro, figlio di Aldo, c’erano Valerio Magrelli, Fabio Ferzetti, Benedetta Loy, allora eravamo un gruppo di ragazzotti, aspiranti intellettuali, figli di un’utopia poi chiusa in fretta e furia. Adesso, per mia figlia, ho scelto il Visconti, il liceo più classico e tradizionale possibile». Appena arrivata ai tredici anni, Francesca si iscrive alla Fgci, la Federazione giovanile comunista, allora guidata da Walter Veltroni: «Ma io non lo conoscevo, era il capo inarrivabile. L’ho incontrato molti anni dopo, attraverso il cinema. No, io ero una del genere suorina che amava Berlinguer e per lui, per amore suo e del partito, vendevo tutte le domeniche l’Unità. Andavo alle sei di mattina dal segretario di sezione a prendere i pacchi del quotidiano e poi, via ai semafori a venderle. Per la mia scuola, era quasi uno scandalo: tutti i miei compagni, allora, leggevano manifesto e Lotta continua ». Quando poi Moro viene sequestrato e ucciso, «ricordo lo choc, il pianto, lo strazio di tutti noi. Ma anche la scoperta, liberatoria, dell’uomo, del prigioniero che si era raccontato nelle lettere, svelando di non essere stato il solito democristiano che noi potevamo immaginare». Da allora a oggi, Francesca Archibugi ha continuato a votare per i Ds, «soltanto una volta per Rifondazione, con un’infinità di sensi di colpa, perché il partito andò maluccio e mi sembrava che fosse tutta colpa mia». Eppure, nel rapporto fra il partito e il cinema avverte che qualcosa non ha funzionato: «Quando ho letto quel meraviglioso libro di Paolo Spriano che è Le passioni di un decennio, 1946-1956, ho capito che moltissimi comunisti – fin dagli anni Cinquanta – erano sofferenti per il terribile rapporto con l’Urss. Italo Calvino, e con lui moltissimo grandi della letteratura, furono capaci di prendere le distanze da quell’orrore. Nel cinema, tutto avvenne molto più tardi, troppo tardi. E anche registi che io amo, come Ettore Scola, uno che ha firmato il mio film preferito, C’eravamo tanto amati, hanno affrontato in ritardo il tema dell’irrigidimento ideologico». La generazione della Archibugi, un tempo conosciuta come «il nuovo cinema italiano», ha dovuto reggere il confronto con i grandi autori del dopoguerra: «A parte delle rare eccezioni, come Gianni Amelio, Marco Bellocchio e Nanni Moretti, noi ci sentiamo delle puzzette se ci paragoniamo con il neorealismo. come se fossimo dei pittori venuti dopo il Rinascimento. Non solo: a produrre film sono le due televisioni, Rai e Mediaset, preoccupatissime della libertà assoluta di cui dovrebbe godere il racconto cinematografico e, diciamolo, anche dei possibili incassi. La verità è che i talenti, alla fine, vengono fuori lo stesso: i Virzì, i Mazzacurati, i Martone, ce l’hanno fatta. Ma che fatica...». I politici di professione, la Archibugi non li conosce e non li frequenta. Né loro amano troppo il cinema, «a parte il solito Veltroni. Una volta, a una festa di studenti, mi ricordo che si disse: è arrivato Claudio Martelli, che sembrava una star... Lo guardammo come fosse un animale allo zoo». Chiacchiere e vino rosso, salatini e racconti ci hanno fatto passare insieme alcune ore. ( tardi, Francesca Archibugi mi trattiene e sorride: «Adesso io intervisto te. Ho bisogno di sapere tante cose sull’adozione e su come i ragazzi vivono il rapporto con le loro radici: il mio film racconterà una storia che tu conosci bene...»). Barbara Palombelli