Il Sole 24 Ore 06/08/2005, pag.9 Mariano Maugeri, 6 agosto 2005
Dal Marsala alla «dolce vita» declino di un impero siciliano. Il Sole 24 Ore 06/08/2005. «Florio? Binidittu dunni passa» faceva dire il drammaturgo catanese Nino Martoglio a uno dei suoi personaggi per rappresentare il culto di una famiglia di imprenditori che per tutto l’Ottocento sono stati la Sicilia stessa
Dal Marsala alla «dolce vita» declino di un impero siciliano. Il Sole 24 Ore 06/08/2005. «Florio? Binidittu dunni passa» faceva dire il drammaturgo catanese Nino Martoglio a uno dei suoi personaggi per rappresentare il culto di una famiglia di imprenditori che per tutto l’Ottocento sono stati la Sicilia stessa. I due nomi, Florio e Sicilia, sono assimilabili, intercambiabili ancora più e meglio di un sinonimo, come se solo l’uno, i Florio, riuscisse a interpretare le pieghe più profonde di un carattere e di una mentalità, quella siciliana, che i nativi subiscono come un destino, mentre lo straniero sceglie con quella lucidità che di solito genera gli slanci d’amore più autentici e tenaci. A pronunciare il nome dei Florio si sente il brivido violento del sole di Sicilia di Ponente, con la luce bianca e onnipotente delle saline di Marsala che sembra voler incenerire tutte le ombre e i sospetti di cui i siciliani sono infaticabili costruttori. E i Florio erano stranieri, stranieri della razza più lontana che per un isolano possa esistere. Perché i siciliani sono cosmopoliti con tutti quelli che vivono altrove: ostentano gli amici milanesi, cedono al fascino dei francesi, contengono per cameratismo la loro presunzione al cospetto degli inglesi - in fondo altri isolani - ma si ostinano a ignorare quella lingua di terra spolpata dalle coste che pende proprio sopra le loro teste: la Calabria. E di Bagnara Calabra era Paolo Florio, esperto commerciante di droghe. I continui viaggi a Palermo lo convincono che la città siciliana potrebbe diventare strategica. La Calabria, dopo il terremoto del 1783, vive uno dei tanti momenti difficili della sua storia, mentre Palermo ospita pure un sovrano dimezzato, re Ferdinando, costretto alla fuga dall’avanzata di Napoleone e protetto dalla flotta dell’ammiraglio Nelson. La presenza dei cortigiani genera la domanda di prodotti esotici e di fattura fine di cui aristocratici e nobili sono insaziabili consumatori. La prima sede della ditta è in via dei Materazzari, alla Marina, a un passo dal porto, il luogo dei luoghi dell’impero che Vincenzo, figlio di Paolo, costruirà di lì a qualche anno. Paolo è un grossista di spezie e generi coloniali lestissimo ad approvvigionarsi sui mercati di tutta Europa. Un giro di denaro vorticoso che muove con grande destrezza e un pizzico di spregiudicatezza. Paolo muore a 53 anni per una malattia infettiva. Vincenzo, suo unico figlio, ha otto anni, ma sarà il fratello di Paolo, Ignazio, a far prosperare quello che il fratello ha costruito. La ditta assume il nome di "Ignazio e Vincenzo Florio", un marchio che diventerà l’imprinting delle generazioni che seguiranno. Per volere del padre, Vincenzo può sottrarsi agli obblighi aziendali: gira l’Europa in lungo e in largo, impara le lingue e studia i flussi più redditizi dei commerci di famiglia. La prima intuizione è la polvere di corteccia dell’albero di china, il cosiddetto cortice, un antimalarico che i Florio vendono nella loro drogheria sollevando le ire dei farmacisti. Da questo prodotto nascerà il logo della Casa di Commercio Florio, quel «leone bevente» che ritrova il vigore perduto dopo aver bevuto il cortice miracoloso. Ignazio Florio muore a 52 anni. Suo nipote, Vincenzo, che ha appena compiuto 30 anni, è l’erede universale. Ora il figlio di Paolo può dare la scalata al potere. La Sicilia ha bisogno di tutto. una terra affamata, eternamente divisa tra gli aristocratici dittatori del latifondo e uno sterminato esercito di poveri. Di borghesi, neppure l’ombra. Almeno fino alla comparsa sulla scena palermitana di Vincenzo, che già da anni non smette di rimuginare tra sé e sé la lezione degli Ingham e soprattutto di John Woodhouse, un commerciante di Liverpool costretto a riparare nel porto di Marsala (che non a caso in arabo significa porto di Allah) nel lontano 1773. Woodhouse è in Sicilia per comprare ceneri di di soda, ma in un’osteria si appassiona al vino locale, un uvaggio, si direbbe oggi, di Insolia, Cataratto e Grillo, uve autoctone che circondano Marsala e mezza provincia di Trapani. Il commerciante inglese ne compra diverse botti ma per fargli reggere un viaggio di settimane fortifica il vino con l’aggiunta di alcol. Così nasce il Marsala. E così prima Woodhouse, poi Benjamin Ingham, costruiranno le cantine che renderanno il Marsala famoso nel mondo. Vincenzo, dunque, quando decide di investire a Marsala è ben conscio di arrivare trent’anni dopo gli inglesi. Per questo fa comprare il terreno da un prestanome, come se non volesse svelare i suoi piani. Di lì a poco, la sua cantina diventerà la più bella ed efficiente della Sicilia. Il Marsala avrebbe portato il nome dei Florio in giro per il mondo, ma la fortuna (e sfortuna) della famiglia siciliana dipenderà dalle sorti dell’attività armatoriale. Comincerà con un piroscafo e in società con i più bei nomi dell’imprenditoria inglese e aristocratica (da Ingham a Giuseppe Lanza di Trabia) e, all’apice, suo figlio Ignazio sarà il principale azionista della Navigazione generale italiana, 106 piroscafi con una stazza di 90mila tonnellate, praticamente l’intera flotta della marina mercantile italiana. Centosei navi che raccontano le pagine più terribili della storia d’Italia, le miserie di una nazione che su quei piroscafi deporterà milioni di italiani (e un milioni e mezzo di siciliani) nelle Americhe; le umiliazioni della politica colonialistica voluta da un altro siciliano, il Primo ministro Francesco Crispi, che chiederà aiuto ai Florio per portare in Africa le truppe che avrebbero dovuto edificare l’Impero e invece andranno incontro alla carneficina di Adua. Prima Vincenzo, poi suo figlio Ignazio, correranno con le navi in soccorso di chiunque le chieda: i Borboni, Garibaldi e i Primi ministri che si succederanno alla guida dell’Italietta corrotta della seconda metà dell’800. Tutti coloro che conquisteranno il potere, dai Borboni ai Governi democratici, rinnoveranno con i Florio i contratti per il trasporto di viaggiatori, merci, truppe e plichi postali. Vincenzo muore nel 1868, quattro anni dopo essere stato nominato senatore del Regno. Tutte le attività di famiglia (le tonnare, lo zolfo e il Marsala) ruotano attorno alla compagnia armatoriale, la quadratura di un impero industriale superiore di un terzo a quello degli Ingham. Suo figlio Ignazio moltiplicherà gli affari nei filoni già individuati dal padre e diventerà l’imprenditore siciliano più ricco e potente della storia. Solo una volta Ignazio contravviene ai consigli paterni, quando sposa una nobile palermitana, Giovanna d’Ondes Trigona, anziché una borghese, e per giunta milanese, come aveva fatto Vincenzo. Ignazio è così affascinato dall’aristocrazia che lega tutti i figli a famiglie nobili isolane, che assicura alla figlia Giulia, promessa sposa a 13 anni del principe Lanza di Trabia, una dote iperbolica di 4 milioni. Presago che il clima economico dell’Italia stesse mutando, nel suo testamento suggerì ai suoi figli maschi, Ignazio junior e Vincenzo, di investire metà del patrimonio in immobili e terreni. Una rivoluzione per i Florio, nemici giurati della rendita parassitaria e sempre pronti a reinvestire i profitti. Ignazio muore a 53 anni e suo figlio, che porta il suo stesso nome, gli succede appena ventenne. Ignazio junior è troppo giovane per cogliere l’essenza del testamento paterno. E più del padre e del nonno nasce prigioniero di un nome che ormai è entrato nella storia. Lui è amico di scrittori, poeti e pittori. Divora Nietzsche e D’Annunzio, ammira Filippo Tommaso Marinetti. Ma la sua passione più profonda e irrefrenabile sono le donne. La seduzione come fuga da se stesso, da un blasone che significa privilegi ma pure responsabilità schiaccianti. Basta accostare le fotografie di Vincenzo e di suo nipote Ignazio per capire come due generazioni di ricchezza e il mosaico cromosomico con gli aristocratici palermitani abbiano smorzato quella forza primitiva e grifagna che Vincenzo concentrava negli occhi e nella mascella. Ignazio possiede invece una bellezza languida, illuminata da due occhi liquidi persi a contemplare le meraviglie e le mostruosità del mondo. Sulle sue avventure fioriscono leggende degne di un romanzo: sei lussuosissimi yacht privati, costosissime parures di gioielli regalate a ballerine appena conosciute, alcove in mezza Europa. Racconti che sembrano non turbare la bella moglie di Ignazio, Franca Jacona Notarbarolo, ammirata e stimata dalle famiglie aristocratiche del Vecchio Continente. Ignazio non è solo un grand viveur, a suo modo tenta il possibile per tenere alto il nome dell’azienda, ma, a differenza di suo padre e suo nonno, sembra perseguitato da una sfortuna implacabile: a ogni mossa che compie si verifica la peggiore delle contromosse possibili. La verità è che l’epoca di Vincenzo e Ignazio senior è tramontata per sempre. Il Parlamento, alle prese con una crisi economica pesantissima, azzera le provvidenze agli armatori (la Tirrenia, che nascerà dalle ceneri della N.G.I., sarà rilevata dall’Iri durante il Ventennio), gli imprenditori si ribellano al prezzo troppo alto dei noli, lo zolfo diventa un minerale da museo, la tasse sull’alcol e la sovraproduzione mettono fuori mercato il Marsala (negli anni 20 l’azienda sarà rilevata dai piemontesi della Cinzano), le tonnare, anche quelle alle prese con la concorrenza di spagnoli e portoghesi, sono risucchiate dalla montagna di debiti. Pure la politica volta le spalle ai Florio: i Governi (dopo l’uscita di scena dei Primi ministri Crispi e il marchese di Rudinì, entrambi siciliani) ora varano misure di sostegno all’industria del Nord, dove a cavallo del 900 cominciano la loro ascesa gli Agnelli, i Pirelli e i Falck. Ignazio fonda il giornale «L’Ora» e dalle sue colonne cerca di contrastare come può un destino maligno che lo perseguita anche nella vita privata: l’ultimo erede dei Florio e sua moglie saranno colpiti dalla morte prematura di tre figli in tenerissima età, un maschio e due femmine. Il fratello di Ignazio, Vincenzo, di quasi 15 anni più piccolo, può solo ritagliarsi un suo spazio e inventarsi un altro capolavoro, una gara automobilistica, la Targa Florio che, come disse Manuel Fangio, «non è solo una corsa ma una festa». L’ultimo dei Florio visse molto più tempo di chi l’aveva preceduto, senza lasciare discendenti maschi. Una delle sue nipoti, Arabella Salviati Florio, se lo ricorda ancora novantenne sulla terrazza della villa dell’Arenella, l’unica proprietà rimasta alla famiglia, perennemente affacciato su quel mare solcato dalle navi della Tirrenia che un giorno erano state sue. Forse uno dei rari momenti in cui Ignazio "il dissipatore" si sarà sentito come quel personaggio di Fernando Pessoa che, alla fine di una tormentata esistenza, trova la forza di ubbidire a un’esortazione che l’ha perseguitato per una vita intera: «Siediti al sole, abdica e diventa il re di te stesso». Mariano Maugeri