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 2005  agosto 13 Sabato calendario

Ecco gli antenati di Consorte quando il silenzio era d’ oro. La Repubblica 13/08/2005. Ma i comunisti di una volta erano più prudenti

Ecco gli antenati di Consorte quando il silenzio era d’ oro. La Repubblica 13/08/2005. Ma i comunisti di una volta erano più prudenti. Molto. Un riflesso della cospirazione, chissà, o la necessità di guardarsi le spalle da Scelba. Eppure mai l’ avvocato Cigarini avrebbe parlato al telefono come il presidente Unipol Gianni Consorte, che lanciato alla conquista di una banca, fa i nomi, riferisce, chiama Fassino, chiama quell’ altro, accetta i complimenti, e finisce addirittura per chiedere «una mano» al governo. L’ avvocato Renato Cigarini, negli anni ’50, «era l’ uomo di fiducia del Pci per gli affari». Che genere di affari? chiede Fabio Tamburini ad Aldo Ravelli, il Re Mida della Borsa, nel suo Misteri d’ Italia (Longanesi, 1996): «Immobiliari - risponde quel grande agente di cambio -. A quel tempo erano le attività più adatte per quel genere di operazioni». Operazioni, va da sé, destinate a rimanere rigorosamente segrete. E tuttavia era un personaggio strepitoso, questo Cigarini, da non confondersi con il compagno Cicalini (Antonio), che alle Botteghe Oscure era significativamente soprannominato «il Mago» o «l’ Uomo del doppio fondo», e che pure aveva a che fare anche lui con le faccende di quattrini: «i beni d’ intendenza», come li chiamava Pietro Secchia. Da giovane, con la benedizione di Antonio Gramsci, Cigarini aveva partecipato alla marcia su Fiume al seguito di Gabriele D’ Annunzio, la stella rossa appuntata sul bavero della divisa da ardito. Tessera comunista dal 1923, galera, confino, Resistenza; e quindi s’ era messo al servizio del partito, nel senso dell’ approvvigionamento e del trasferimento di capitali, rimesse e bonifici bancari: «Faccio la spola con la Svizzera - confidò all’ allora segretario di Togliatti Massimo Caprara (Quando le Botteghe erano oscure, Il Saggiatore, 1997) - dove le banche non vanno tanto per il sottile». Non esistono sue fotografie: oh, gran virtù dei comunisti antiqui! Quelli che si occupavano di soldi, o meglio: quelli a cui il Pci, come una chiesa, aveva delegato il compito di contaminarsi con il demonio capitalista, possedevano un’ aura specialissima che scaturiva diretta dal tabernacolo del comunismo. Ma erano, e soprattutto dovevano restare delle ombre, delle parvenze. Nel corpo del partito il denaro è stato a lungo un tabù e la ricchezza vissuta come indice di volgarità. Bastava del resto osservare gli abiti di Longo, la casa di Berlinguer, o la monacale camera da letto di Pajetta per comprendere un codice collettivo, uno stile di vita che imponeva un atteggiamento di ripulsa, di sobrio distacco, al massimo, dai quattrini. Solo gli ignoti e fuggevoli militanti-finanzieri ne erano dispensati, in nome dell’ «idea». Da giorni e giorni Consorte, sfortunatissimo epigono di quella tradizione, appare in foto sui giornali. Le istantanee restituiscono l’ immagine a colori di un manager soddisfatto, elegante, di successo. A illustrare i dialoghi intercettati, il presidente dell’ Unipol allarga le braccia sorridendo, tipo Papa. Ecco: non c’ è nemmeno da chiedersi se Amerigo Terenzi, che fu deus ex machina della stampa comunista e di quella fiancheggiatrice, ma anche brasseur d’ affaires del Bottegone, si sarebbe mai prestato. Gli prese un colpo in Corea del Nord, dov’ era in missione per il Pci, e lì morì, Terenzi: ma le foto non se le sarebbe mai fatte fare. A suo modo era una variante, o un’ evoluzione della specie. Irruento, meticoloso, rosso di capelli, grande esperto d’ arte, «simpatico bugiardo» (a giudizio di Gianni Cervetti) e molto romano. Ogni tanto si prendeva Maurizio Ferrara e lo trascinava al camposanto, al Verano, davanti a una tomba, la cui lapide recava scritto: «Quello che siete fummo, quello che siamo sarete». Con tale prospettiva Terenzi fu messo a trattare con Mattei, con la Fiat e in ultimo anche con Cefis. Ossi duri: petrolio, Togliattigrad e gasdotto siberiano, altro che Gnutti e Ricucci. Allora la finanza rossa faceva da ponte tra il capitalismo italiano e l’ Urss. Sulla questione, nelle sue varie articolazioni, Valerio Riva ha scritto un libro di 879 pagine, L’ oro di Mosca (Mondadori, 1999), tanto polemico quanto documentato. Eppure parecchio, lontano da Mosca, vi rimane fuori: a partire dall’ oro di Dongo e proseguendo con il tesoro di Secchia trafugato nel 1954 («il bagaglio che scotta»), i rapporti con i fratelli Marchini, i «palazzinari rossi» che costruirono le Botteghe Oscure, le fortune del piccolo impero sanitario del clan Spallone. Negli anni ’70 i broker del comunismo tendono a nascondersi ormai dietro le sigle: Eumit, Restital, Italturist, Soficom. E’ il periodo «cossuttiano», e il personaggio di riferimento torna a essere fantasticamente milanese: Giuseppe Stante, partigiano pure lui, manager industriale a 19 anni, poi tennista, intenditore di vini, bon vivant, proprietario di due Ferrari e di due barche ancorate nel lago di Garda, una delle quali si chiama «Josif Vissarionovic» (Stalin) e l’ altra «Che Guevara». Vicepresidente della Banca Popolare di Milano, per dire la risonanza balzacchiana, Stante sognava di acquistare il Bolscioj. Il resto è anch’ esso denso, per quanto molto prossimo all’ oggi. «Rovetta» si chiamava il conto corrente di Terenzi, «Gabbietta» quello di Primo Greganti che per Mani Pulite finì due volte a San Vittore: ma senza parlare, e come tale a suo modo emblema di una discutibile, ma oggettiva «diversità». Disse di lui Lucio Colletti: «Un formidabile mastino che lavora in silenzio per il suo partito riservandosi i compiti più rischiosi e ingrati. Una razza diversa». Si seppe poi, per la penna di Saverio Vertone, che «il compagno G.» aveva fatto arredare il bagno di una sua casa con piastrelle, made in Coop, su cui spiccava l’ insegna araldica della falce e martello. Ma a quel punto la roulette, il Black Jack e le slot machines erano già arrivate alla Festa dell’ Unità; le case del popolo stavano per trasformarsi in sale-Bingo; e gli uomini della finanza rossa, plausibilmente, si chiedevano se non era il caso di farsi brillanti promoter di se stessi, e cioè - forse - del partito. Il denaro, come al solito, puzza e non puzza: cambia l’ olfatto, semmai, ma gli inconvenienti rimangono. Filippo Ceccarelli