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 2005  agosto 07 Domenica calendario

Omero, adorabile infedele sullo schermo. Il Sole 24 Ore 07/08/2005. Stimato professor Del Corno, prendo spunto dal suo articolo «Omero tradito dal cinema» (Domenicale del 31 luglio) per sottoporle alcune riflessioni

Omero, adorabile infedele sullo schermo. Il Sole 24 Ore 07/08/2005. Stimato professor Del Corno, prendo spunto dal suo articolo «Omero tradito dal cinema» (Domenicale del 31 luglio) per sottoporle alcune riflessioni. Come affermano gli autori del libro Tutto quello che sappiamo su Roma lo abbiamo imparato a Hollywood (Luisa Cotta Ramosino, Laura Cotta Ramosino, Cristiano Dognini, Bruno Mondadori Editore, Milano 2004), il cinema è per la storia - e per il mito - «un adorabile infedele». La loro è «una storia d’amore degna del miglior romanzo d’appendice. Ai grandi slanci e alle dichiarazioni di fedeltà seguono periodi di rifiuto e dimenticanza, non sempre chiaramente motivati, per poi assistere a improvvisi e sorprendenti ritorni di fiamma». Eppure, in questo rifiorire di pellicole peplum, in questa recrudescenza di febbre greca che sembra non dar tregua al luccicante mondo di Hollywood, c’è anche qualcosa di buono, dacché un buon dio si nasconde sempre in qualche dettaglio. In questo caso il dettaglio è etimologico. Storia e mito, infatti, vengono sì traditi dal cinema, ma al contempo ne sono anche traditi (nel senso latino del termine "trasmessi, tramandati"). Com’è noto, i percorsi della tradizione classica non sono mai lineari, bensì tortuosi e intricati, spesso addirittura carsici. Durante il Medioevo - ad esempio - gli dei del l’Olimpo sono sopravvissuti travestendosi da figure astrologiche e allegorie sapienziali, e questo tradimento è stato per loro garanzia di tradizione e sopravvivenza. Il mito, inoltre, è una realtà multiforme e mai uguale a se stessa: quante varianti per ogni episodio! Per non parlare poi delle raffigurazioni (pittoriche e scultoree) e delle rappresentazioni (teatrali e letterarie) del mito: per quanto accurata nessuna di esse ne restituirà e catturerà in maniera precisa e completa l’inafferrabile, multiforme e sfaccettata natura. E allora perché non concedere anche al cinema il privilegio di giocare un ruolo in questo complesso sistema che è la tradizione? Perché non concedere agli dei di travestirsi anche da divi della celluloide e dello star-system (e all’occorrenza anche da testimonial pubblicitari di cibi surgelati) pur di sopravvivere all’oblio? In fin dei conti anche l’adorabile e infedele Decima Musa che presiede all’arte cinematografica è una figlia di Mnemosyne, e, al pari delle sue nove sorelle, può concedere - o all’occorrenza anche solo rinvigorire - il prezioso dono dell’immortalità tanto agognato dagli eroi omerici. Lorenzo Bonoldi - Mantova Caro signor Bonoldi, la Sua lettera introduce nella discussione sui film cosiddetti peplum argomenti di forte interesse e portata generale. indubbio che la fortuna di un soggetto culturale va commisurata non tanto in termini qualitativi, ma anche in rapporto all’ampiezza della risonanza, e alla continuità che tale diffusione assicura. A me è parso che la spettacolare riesumazione dell’universo classico, a cui assistiamo in questi tempi, deprima l’intensità artistica e intellettuale che quei grandi modelli hanno trasmesso alla posterità; ma ammetto che quest’immagine negativa si fonda soprattutto sul confronto con i testi sublimi dell’epica e della tragedia: un’eccezione anche per l’età antica. Si tratta di uno sbilanciamento "passionale", che ha trovato opportuna compensazione nel l’equilibrio dei suoi ragionamenti sui tortuosi percorsi della tradizione classica. D’altra parte, sono pronto ad ammettere una straordinaria efficacia della tragedia greca sul cinema, in un’altra direzione: ossia nei grandi film che risalgono non alle storie antiche, bensì all’idea stessa del tragico. A titolo d’esempio, si può ricordare come in Mystic River di Clint Eastwood il modello di un destino impostato da eventi remoti si realizzi con implacabile necessità, al di fuori della consapevolezza dei personaggi: non diversamente che nell’Edipo di Sofocle. A un tale schema d’eccellenza, che d’altronde discende esso pure dalla mente classica, occorre rinunciare se si sceglie il percorso della permanenza a ogni costo. A questo proposito devo inserire una ritrattazione, che mi suggerisce il Suo riferimento alla sopravvivenza garantita dall’arte figurata. Qui esistono casi clamorosi che insegnano come non sia la fedeltà dei particolari, bensì la suggestione d’assieme del prodotto ad assicurare la difficile cerniera fra la memoria dell’antico e la curiosità "nobile" dell’età recente. Sullo sfondo del meraviglioso dipinto di Sebastiano del Piombo ora agli Uffizi, La morte di Adone, figurano Palazzo Ducale e il Campanile di San Marco: ma il vertiginoso anacronismo non incide sul fascino dell’opera, e tanto meno viola la suggestione dell’antico mito. Occorrerà dunque rassegnarsi ad accettare che in Troy siano prestate ad Achille le fattezze in stile body building di Brad Pitt. D’accordo quasi su tutto, dunque: e in particolare sul fatto che «ne vale la pena». I pervicaci assalti alla memoria del classico sono a tal punto fondati su motivazioni triviali e fasulle, che la legittima difesa può affidarsi anche a testimonianze di arte non eccelsa, ma accurate e sincere (assai valida e persuasiva è l’analisi "in positivo" di Troy, fatta da Eleonora Cavallini nel libro I Greci al cinema recensito in quell’articolo). D’altra parte, l’accattivante emozione che può sprigionare da questi approssimativi riecheggiamenti lascia sempre spazio a ulteriori esplorazioni e conoscenze, e non di rado a un verace, duraturo innamoramento. Dario Del Corno