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 2005  agosto 14 Domenica calendario

Toledo, il mestiere delle spade. La Repubblica 14/08/2005. Toledo Margarita Martìn, cinquanta passati, ha un bolerino rosa e dei jeans rosa attillati ton sur ton

Toledo, il mestiere delle spade. La Repubblica 14/08/2005. Toledo Margarita Martìn, cinquanta passati, ha un bolerino rosa e dei jeans rosa attillati ton sur ton. Sale le scale e si affatica un po’, «fumo troppo». Poi riparte, passa in rassegna i reparti, fa gesti muti agli operai che d’altra parte non potrebbero sentirla: il rumore di lame è un clangore di battaglia che si mescola coi soffi e gli sbuffi delle macchine. Fiamme, fumi, odore di fuoco. Uomini dentro scafandri che maneggiano pinze incandescenti. La signora, piccola e svelta, ci passa in mezzo come fosse in cucina e si raccomanda molto con l’ ospite: attenta qui, non si tagli. Non tocchi la vasca, è rovente. Stia lontana dal forno. Attenta alle scintille, si potrebbe sciupare il vestito. L’ acciaio brunito macchia e poi ci vuole il limone per toglierlo. Limone e mezza giornata ad asciugare al sole. Si chiude la porta sull’ inferno in miniatura, si torna nel patio. Il cortile interno è verde e ombroso. Smerli di castello, azulejos e fiori, una fontana. Silenzio. «Qui da bambine le mie sorelle ed io giocavamo alle principesse. Guardi, quella è la Puerta del Sol da dove entrarono Alfonso VI e il Cid Campeador quando presero la città ai Mori. Questa è la moschea, laggiù la sinagoga. Qui sotto la porta di Carlo V imperatore. Noi ci mascheravamo con gli stracci e aspettavamo il principe che avrebbe scelto la più bella e l’ avrebbe salvata. Le nostre vicine sono le suore carmelitane, vede? La sera escono a curare l’ orto e quando fa buio si sentono pregare: fanno un mormorio che sembra d’ acqua». Si vedono, sì, le carmelitane. Al di là delle tende del convento, ombre minuscole dietro alle finestre chiuse. In un tempo lontano, molto molto lontano, tanti secoli prima che la gloriosa fabbrica di spade Bermejo esistesse, i cavalieri venivano a Toledo da tutta la Spagna perché le acque del fiume Tago erano una leggenda: loro sole, si diceva, potevano raffreddare il conio di una lama così da renderla invincibile. Arrivavano a cavallo fin qui a cercare "Excalibur", c’ erano maestri fabbri che sapevano riconoscere la temperatura dell’ acciaio e dunque il momento di batterlo solo guardando il colore della lama incandescente: rosso tizzone, porpora del re, rosso sangue, rosso tramonto. Ancora oggi si dice così, la scala dei colori del fuoco è questa. Poi i signori raffreddavano il lavoro che gli veniva consegnato affondandolo nel corpo muscoloso di uno schiavo, dicono i testi conservati al museo. Le illustrazioni, sui libri, indugiano sui dettagli. I più generosi risparmiavano le vite e bagnavano la lama con l’ urina di capra. A quel punto di nuovo bisognava scaldarla: sarebbe stata pronta solo quando al contatto con il corno di un toro avesse cambiato colore. C’ è un modo di dire altrimenti incomprensibile, qui in Spagna: «C’ è puzza di corno bruciato», dicono le donne di casa quando qualcosa si attacca nella pentola. Le corna nel resto del mondo non bruciano. A Toledo sì, da secoli. Lo sapeva Carlo Magno. Lo sapeva Shakespeare quando ha scritto l’ Otello e naturalmente lo sapeva Cervantes, Don Chisciotte è nato qui. Lo sa Margarita Martìn, quieta madre di famiglia ed erede del fondatore, Vicente Martìn Bermejo. All’ una in punto, quando la fabbrica Bermejo fa suonare la sirena di fine turno, da quasi cent’ anni le donne del quartiere sanno che è l’ ora di mettere le patate a lessare. Di buttare la pasta, diremmo noi. Vicente, il nonno di Margarita, aprì qui il suo laboratorio di maestro d’ armi nel 1910: il terreno glielo aveva regalato la suocera (Margarita, naturalmente) con matriarcale lungimirante senso pratico, così che il genero nullatenente potesse mettersi all’ opera e mandare avanti la famiglia. Cominciò da solo, col suo basco in testa: gli uffici sono pieni di foto di questo ometto minuscolo che esamina i ferri come fosse Picasso. Sarà così per pochi giorni ancora. A Ferragosto si chiude per ferie e a settembre - racconta la signora in rosa, gli occhi realmente pieni di lacrime - si riaprirà in un capannone di là dal fiume Tago, in periferia. «Un luogo a norma, che ci consenta di essere ancora competitivi perché ora che sono arrivati i cinesi non basta più la qualità. Ci vuole l’ efficienza, la quantità e il basso costo. Non mi ci faccia pensare che non mi voglio intristire. Davvero non riesco ancora a credere che ce ne andremo da qui». Però i cinesi, certo. Le imitazioni made in Taiwan hanno rovinato il mercato: ormai delle cose conta solo l’ aspetto, non la sostanza, e se la qualità delle lame da dieci euro è pessima, pazienza: la gente comunque compra quelle. Ci vuole l’ intenditore per cogliere la differenza, ci vuole un professionista e non un turista per decidere di spendere seicento euro invece di sei per un "estoque" da torero. Margarita sospira: che ne sarà di noi. Il mestiere delle armi a Toledo è oggi un mestiere di donne. Le tre sorelle Martìn - Ascensiòn e Maria del Pilar, le altre - hanno ereditato una fabbrica che fornisce spade scimitarre e pugnali a sessantadue eserciti del globo. I Marines, la Us Navy e la Guardia Vaticana tra questi, oltre che "estoques" da torero a tutti i matadores di Spagna. Gli "estoques", spade sottili che uccidono di punta e non di lama, sono elegantissimi e di una bellezza estetica che fa dimenticare a cosa servono: impugnatura rivestita di tela rossa, pomello d’ oro. I toreri, la cui superstizione è leggendaria, vengono a sceglierli personalmente: seguono la lavorazione, curano l’ inclinazione della lama colpo su colpo di martello. La curva della lama si chiama, nel linguaggio degli artigiani, la "morte". Non c’ è torero che non passi da Toledo, dai Bermejo. «Io avevo sposato un avvocato, mia sorella un fisico nucleare e l’ altra un economista. Mio padre seguiva la fabbrica e quando è mancato, a 57 anni, abbiamo dovuto decidere: potevamo chiudere, ma avevamo cinquanta operai. Cinquanta famiglie. Che si faceva? Si mandavano a casa? Così sono rimasta io. Poi mio cognato, il fisico, ha deciso di venire a dare un’ occhiata. Si è innamorato di questo lavoro, adesso l’ amministratore è lui. I nostri figli, i miei tre e i tre miei nipoti, fanno mestieri più redditizi di questo. Delle spade si vive appena: i costi sono altissimi e i guadagni incerti. Sa che davvero a volte arriviamo a fine mese a stento? Fare l’ avvocato rende molto di più, però certo, con che cuore, con che anima si può archiviare una storia così? Possiamo chiudere Bermejo? Non credo, davvero. Comunque: non io». Il cuore e l’ anima, ecco. Le lame di Toledo raccontano storie di eserciti di mori assediati dai cattolici, di cavalieri leggendari e imperatori, di morti all’ arma bianca tra i vicoli del ghetto. Isabella la Cattolica - di cui qui in cattedrale si celebrano ora con una mostra sontuosa i 500 anni dalla morte - aveva una sua spada, le serviva per ordinare i cavalieri e gli hidalgos che mandava a conquistare le Americhe, per varare con solennità gli editti con cui cacciava dalla Spagna gli ebrei e le loro ricchezze, i loro talenti. Ha una spada in mano San Paolo nel ritratto custodito nella casa di Domenico Theotokopoulos, pittore cresciuto a Roma alla scuola di Tiziano e venuto qui a vivere e morire, nato a Creta però e perciò chiamato il greco, El Greco. Hanno spade nei foderi i soldati della sua crocifissione, custodita nella sacrestia del Duomo: Tiziano Tintoretto Caravaggio, un piccolo Louvre sistemato alla buona nelle stanze sul retro, uno spettacolo da levare il fiato e sono solo gli avanzi di quel che è stata la ricchezza dei Re cattolici. è affilato e grigio come una spada il cristo in croce della Cattedrale. Ci sono spade disegnate sulle porte di legno, in città, negli stemmi di pietra. è una miniatura della spada del Cid il tagliacarte che centinaia di turisti arrivati in torpedone da Madrid comprano per diciannove euro e novanta e portano in America, in Giappone. Nell’ anno mille in questa città vivevano insieme la sensualità degli arabi, l’ intelligenza degli ebrei e il raziocinio dei cattolici: chiese di tutti i culti raccontano un medioevo luminoso e una convivenza possibile. All’ ombra delle armi, certo: migliaia e migliaia di spade custodite nella fortezza dell’ Alcazar. Però poi l’ odore dolce del capretto, la sera, i ricami di pietra alle finestre. Dice Margarita che la sapienza segreta dell’ arte delle spade risiede in principio nell’ acqua e nella sabbia del Tago. è vera la leggenda. C’ è qui una sabbia particolarmente ricca di un minerale chiamato wolframio, e c’ è l’ acqua salina del fiume che fa da buon conduttore al momento di forgiare le lame. «Noi i ferri li lavoriamo soltanto: l’ acciaio non lo facciamo qui, ci arriva dai Paesi baschi. Qui lo forgiamo, gli diamo forma e resistenza, potenza ed elasticità. La materia prima non è nulla senza la mano che la tratta. è come avere le uova e pensare di aver già pronta la frittata», ride. è vero anche che i cavalieri per raffreddare le loro lame le bagnassero nel sangue degli schiavi, o nell’ urina. «Ora ci sono le vasche, vede?». Bermejo produce dodicimila spade all’ anno, mille al mese, quasi cinquanta al giorno. Ha contratti in esclusiva e licenze per gli eserciti americano e iracheno. A luglio ha chiuso la spedizione per il Cile, a settembre si ricomincia con le spade dei Marines. «Le committenze internazionali cominciarono nel 1959. Arrivò a Toledo un ebreo di Boston, Sharon Fugger, un tipo bizzarro che per pranzo voleva solo sardine e uova sode. Era scappato dai nazisti fuggendo in Polonia, era passato per la Russia e la Svezia, infine era arrivato in America. Lavorava per l’ esercito Usa, procurava i materiali. Sapeva della tradizione di Toledo, Alonso Sahagun il Vecchio d’ altra parte è leggendario: un artigiano del 1500 di cui parlano testi scritti in caratteri e in idiomi che non saprei decifrare. Perciò questo strano signore, Fugger, venne qui a cercare qualche spada per le uniformi di gala del suo esercito. Aveva sentito parlare del maestro Vicente, mio nonno. Gli chiese in principio dodici pezzi. Furono cinquanta l’ anno dopo, cento quello dopo ancora». Si passa davanti alle foto incorniciate ai muri: il nonno, l’ omino con un grande naso e con il basco in testa, mentre parla con gli operai, valuta il filo di una lama, accompagna gli ospiti. «Ha vissuto fino a novant’ anni, stava qui seduto sotto l’ albicocco a raccontarci storie di battaglie. Ha fatto in tempo a conoscere i generali della guerra del Golfo e gli astronauti. John Glenn è venuto qui a comprare una spada ed è rimasto un pomeriggio intero. El Buitre è un nostro caro amico, un collezionista». Le armi da collezione sono le più belle e le più care. La copia della spada di Simon Bolivar costa novemila euro: è fatta d’ oro e zirconi, un lavoro delicatissimo di intaglio. Il laboratorio delle incisioni è una stanza chiusa, top secret. «Qualche segreto ce lo dobbiamo tenere stretto, con tutta la gente che circola e fa foto non si sa mai~». Sono le donne a incidere e a dipingere a mano, pezzo per pezzo. Hanno delle maschere come quelle delle decalcomanie, le applicano sulle lame, ci fanno passare sopra gli acidi con un pennello, poi scavano con un punteruolo. Ogni lama passa da trenta mani almeno, e finisce poi dentro la fodera di cuoio che un artigiano vicino cuce secondo la curva voluta con una macchina a pedali. è così che lievitano i tempi di fabbricazione, e i costi: 400 euro una spada dei cadetti di West Point, da 450 in su un "estoque" da torero, 550 la spada adornata di foglie dei Marines, 6.000 il regalo di Juan Carlos a Saddam Hussein, la copia di una antica spada irachena. Per le nozze dell’ Infanta Elena la casa reale ha commissionato a Bermejo 25 pezzi da collezione, nell’ impugnatura una testa di leone con occhi di rubino. Senza prezzo, non è in vendita. Si è fatta l’ ora di pranzo, suona la sirena. Gli operai escono togliendosi gli occhiali e le cuffie, sono quasi tutti giovani. L’ ultima generazione di vecchi è andata in pensione un anno fa, ne restano quattro per passare le consegne. «Questo è un mestiere che non si impara nelle scuole, si impara facendolo. Arrivano che magari hanno studiato da saldatori, ma saldare un rubinetto non è come unire alla lama l’ impugnatura del Cid. Ci vuole molto tempo, e i ragazzi oggi hanno fretta. Non c’ è la fila, no, per venire a lavorare da noi: sono i figli e i nipoti dei vecchi artigiani, in genere, che arrivano. Contano la passione, l’ amore della tradizione, l’ orgoglio». Anche i figli di Margarita, due avvocati e una veterinaria, si affacciano ogni tanto. Siedono nel consiglio di amministrazione per le riunioni importanti, sentono le cose di famiglia. «Anche mia figlia, come me, si è sposata nella chiesa di cui si vede da qui il campanile, Santiago del Arrabal. I miei genitori ci vivevano dietro, in questa piccola ala della fabbrica. Anche a mia figlia dispiace che ce ne andiamo da qui, anche lei veniva a giocare nel patio da piccola. Chissà che alla fine non scelga di continuare l’ impresa. L’ altro giorno mi diceva: mamma, le nostre sono armi che non tagliano, non uccidono, fanno persino tenerezza ora che i morti li portano le bombe nella metro. E poi senta, pesano un quintale. Ci vuole il fisico per alzare una spada vera. Ecco, vede questa cicatrice che ho qui? Ne presi una in mano da bambina e mi cadde sul piede. Stia molto attenta, anzi. Non tocchi». Se si esclude la Regina Isabella, non è cosa da donne maneggiare le spade. Concita De Gregorio