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 2005  agosto 02 Martedì calendario

Stalin. Il leader comunista non massacrò solo uomini ma uccise anche la lingua. La Repubblica 02/08/2005

Stalin. Il leader comunista non massacrò solo uomini ma uccise anche la lingua. La Repubblica 02/08/2005. Dopo il 1946 esistevano, in alcune città italiane, delle piccole librerie. Le incontravi all’ improvviso, all’ angolo di un profumato viale di Torino, o accanto alla Piazza dei Cavalieri di Pisa. Il libraio pareva sempre lo stesso: gentile, austero, severo, con l’ espressione di chi dedica la vita a un compito di immenso rilievo, che quasi nessuno, forse nemmeno lui, comprende. Nei pochi scaffali, non c’ erano libri di letteratura. Gli uni accanto agli altri, grossi volumi di tela blu-cupa, con un medaglione inciso, titolo in lettere dorate, contenevano le opere, tradotte in italiano, dei Classici del Marxismo: Marx, Engels, Lenin, Stalin, la Storia del Partito Comunista bolscevico dell’ Urss. Stampati a Mosca, dalle Edizioni in lingue estere, tutti i libri emanavano un intensissimo odore di petrolio, perché le industrie sovietiche non riuscivano a trasformare in carta decorosa le foreste della Siberia. Dopo sessanta anni, quel profumo, che ha impregnato a lungo una piccola parte della mia biblioteca, è svanito, come altri profumi molto più preziosi. Quando poco tempo fa ripresi in mano le opere di Lenin, precedute da otto discorsi e articoli di Stalin, sono stato assalito dalla desolazione. Quel passato era irreparabilmente defunto (sia pure con mia gioia): le idee nelle quali avevano creduto centinaia di milioni di uomini non c’ erano più, e sembrava che non ci fossero mai state. «Passato e puro Nulla, sono assolutamente lo stesso», dice Mefistofele nel Faust di Goethe. Con la sua mano polverosa, il tempo aveva cancellato ogni traccia: Stalin credeva di possedere tutto il futuro: immaginava di essere immortale; e ora non aveva più nemmeno una tana o uno sgabuzzino o un loculo nella fossa del passato. Quando lessi qualche pagina a un mio giovane amico, mi guardò con occhi stupiti e incantati: non capiva come qualcuno, sia pure nel 1922 o nel 1937 o nel 1945, avesse potuto scrivere quelle parole. Gli editti di Ramsete II o di Dario il Grande gli parevano più vicini e famigliari. Poi il mio giovane amico cominciò a ridere. Tutto gli sembrava irresistibilmente comico: persino le carceri, i gulag e le fucilazioni gli parevano appartenere a una farsa di Feydeau o di Labiche o di Scarpetta, riscritta con enorme calligrafia nel sinistro ventesimo secolo. Tra le otto prefazioni di Stalin, una era incomparabile. Era l’ undici settembre 1937. Nel Gran Teatro di Mosca, si svolgeva «la riunione elettorale della circoscrizione Stalin di Mosca». Lui, Josif Visarionovic Dzugasvili detto Stalin, era soltanto un umilissimo candidato al Soviet Supremo. Come l’ ultimo dei principianti, aveva un presentatore: «Il nostro egregio Nikita Sergeevic»: proprio Chruscev, il futuro affossatore, che appariva nelle vesti del servo buffone. Quando Stalin cominciò a parlare, si schermì con grazia: prima di lui, Kalinin, Molotov, Vorosilov, Kaganovic avevano già detto e ripetuto tutto quanto bisognava dire. Cosa poteva aggiungere lui, l’ ultimo dei candidati? Forse, doveva fare un discorso su tutto e su nulla? (La sala proruppe in un’ immensa risata). Sapeva che c’ erano specialisti in frivolezze, non solo laggiù, nei paesi capitalisti, ma anche qui, nell’ austero paese dei Soviet (applausi e risate prolungatissime). Questo cenno avrebbe potuto far rabbrividire il pubblico del teatro. Ma subito Stalin entrò nella parte di candidato, cambiò voce, e parlò con calma intorno alle prossime elezioni. Lo entusiasmavano. Non c’ erano mai state, nella storia del mondo, nemmeno nella Grecia antica, in Francia o in Inghilterra, elezioni così libere e democratiche. «La storia - Stalin disse - non conosce un altro esempio simile... Da noi le elezioni avvengono in un ambiente di fiducia reciproca e, direi, di amicizia reciproca». Non credo che nessuno abbia mai pronunciato, «nella storia del mondo», una menzogna così grandiosa ed enorme: una menzogna che, con un balzo, varcava ogni limite e possibilità dell’ immaginazione. Così pieno di grazia e di charme, il candidato Stalin sapeva benissimo cosa accadeva in Russia nel dicembre del 1937. In quei giorni «di fiducia e di amore reciproco», la sua polizia aveva mandato centinaia di migliaia di comunisti nelle carceri e nei gulag: li aveva torturati, feriti, storpiati, fucilati, uccisi di fame, di gelo e di consunzione. Non erano affatto menscevichi, trockisti, zinoveviani, buchariniani, rykoviani, come sostenevano i giudici. Quei morti e moribondi erano fedeli di Stalin, che avevano creduto ciecamente in lui, e ora incontravano nelle carceri le proprie vittime, depositate strati sopra strati, le une sopra le altre. Mentre parlava della fiducia e dell’ amicizia reciproche, Stalin rideva profondamente dentro sé stesso. Con lo spirito che non lo abbandonò mai, rideva di tutto: dei comunisti russi, che l’ applaudivano per entusiasmo o disperazione, dell’ eco che la sua vasta risata aveva fino in Siberia o sulle coste ghiacciate del Mar Bianco, della gioia suscitata fra i suoi simpatizzanti europei e americani, e del proprio incomparabile dono di mentire. Aveva massacrato folle. Ora le folle l’ applaudivano: esaltavano in lui il GRANDE DISCEPOLO DI LENIN; e questo spettacolo paradossale lo rendeva felice e quasi euforico, come il vecchio gatto che ha appena finito di ingoiare i topi della sua cantina. * * * In quegli anni si diffuse in Russia un nuovo linguaggio: lo staliniano, che presto si sarebbe esteso senza misura, fino a dominare l’ Unione Sovietica e quasi metà dell’ universo. Forse il suo capolavoro è la Storia del Partito Comunista bolscevico dell’ Urss, pubblicata nel 1938. Non so chi abbia inventato questo linguaggio: se un intellettuale o un burocrate: o l’ intero comitato centrale del Partito comunista, o l’ intera Unione scrittori; o chi altri. Mi piacerebbe moltissimo conoscere la vera firma. Sebbene raccolga molte frasi di Lenin o di Stalin, il linguaggio della Storia del Partito Comunista è una creazione completamente nuova. Nella storia umana, non si era mai scritto, o letto o ascoltato, qualcosa di simile. Mussolini ed Hitler parlavano e scrivevano in lingua: sebbene fosse una lingua mostruosa, demagogica, e psicotica. L’ ambizione dei seguaci di Stalin era molto più grande: volevano distruggere la lingua, abolire le parole, come per migliaia di anni il genere umano le aveva conosciute. Cancellarono il colore e il timbro della voce, l’ inventività metaforica, la precisione razionale, la fantasia, l’ entusiasmo, l’ ironia, il ritmo, la volgarità, la chiacchiera. La non-lingua del futuro doveva essere implacabile: formule, incessanti ripetizioni, variazioni ripetitive, espressioni meccaniche. I capoversi iniziavano con le stesse parole: le immagini consentite non erano più di quattro. Mentre Mussolini e Hitler volevano suscitare entusiasmo e violenza, la voce staliniana evitava ogni pathos: perché il comunista (così si diceva) era un uomo sovranamente giusto, e quasi senza passione. Chi leggeva o ascoltava, udiva la musica di una macchina complicata e misteriosa. Oltre non si poteva andare: perché più avanti c’ erano soltanto il vuoto e il nulla. Questa voce lasciava cadere una specie di velo, che avvolgeva tutte le cose. Mai la realtà - che nei libri di Marx era stata così compatta, massiccia ed esuberante - veniva rappresentata, evocata o suggerita. Sembrava che non esistesse più niente, tranne la ripetizione delle formule. Anche un albero o un uccello o un vestito o una casa o un’ arancia o un paio di scarpe avrebbero preso la fuga, terrorizzati dalla voce soffocante. L’ immenso velo grigio o nero era stato lasciato cadere dalla Menzogna: una menzogna onniavvolgente e onnipresente, alla quale nei libri staliniani non si poteva sfuggire, diffondeva attorno a sé una specie di ipnosi nebbiosa. Anche la «logica scientifica», la ragione e l’ analisi, che gli stalinisti fingevano di adorare, erano scomparsi. Non restava che uno spazio desolato e deserto, dove nessuno pensava. I libri staliniani erano pieni di nemici. Avevano molti nomi: korniloviani, denikiniani, menscevichi, kulaki, buchariniani, zinoveviani, kameneviani, rykoviani, che la Storia del partito comunista ricorda con puntigliosa precisione. Ogni mese, nasceva un nuovo fiore delittuoso. I nemici cambiavano nome, uscivano da tutti gli abissi e le fogne della terra, si moltiplicavano, si trasformavano, scomparivano chissà dove e poi riapparivano, cambiando testa e ali e artigli come diavoli medievali. Mai il cambiamento era apparente. I nemici erano sempre lo stesso nemico: il Malvagio. Cominciava col compiere colpevoli errori, faceva tenebrose deviazioni, indossava una o più maschere, una doppia o tripla faccia, prendeva soldi dai capitalisti, diventava una spia americana o nazista, e poi piombava nel baratro - assassinii, incendi, esplosioni di miniere, roghi di officine, sabotaggi di kolchoz, fascismo e nazismo. Tutte queste tappe erano fatali: tutti questi momenti necessari. Alla fine, grazie alla vigilanza del GLORIOSO COMPAGNO Stalin, i nemici venivano smascherati, e il loro volto nudo e ghignante appariva alla luce. Con gioioso senso del dovere il popolo li fucilava: dappertutto, da Vladivostok a Kijev, perché dappertutto si erano diffusi il crimine e il tradimento. Mi sono sempre chiesto quali fossero i sentimenti degli stalinisti russi, negli anni che videro il partito travolto da una violenza incomprensibile, che scendeva dall’ alto. Come potevano vivere senza linguaggio, senza parole, senza realtà, senza verità, senza ragione? Come abitare un mondo così atroce, deserto e vuoto? Molti conobbero terribili sofferenze interiori. Se tutto era morto, tanto valeva infilare il collo in un cappio, o tagliarsi la gola. Ma quell’ onda ipnotica, quella nube oscura, la voce misteriosa della grande macchina staliniana, risvegliavano anche sentimenti opposti. Qualcuno fu felice, quasi euforico. Ripetere sempre le stesse parole dava fiducia. Credere nell’ incomprensibile dava gioia. Obbedire sempre era un’ esperienza quasi estatica. Uccidere la lingua, la verità, la ragione, soffocando le contraddizioni suscitava a volte l’ impressione che tutti insieme, sulle orme di Stalin, stessero «scalando il cielo». * * * Il 5 marzo 1953, Stalin morì: non so come. Ma ricordo benissimo le fotografie del funerale: cielo nero, bara nera, grandi berretti di astrakan nero, qualche fiocco di neve; e Berija, Malenkov, Chruscev, Mikojan, Vorosilov, Molotov, Suslov che portavano a turno la bara. Il comunismo portava alle esequie se stesso, seppellendo il Padre mostruoso e amoroso, col quale si era identificato. Poi vennero le lacrime. Una parte dell’ Unione Sovietica pianse chi l’ aveva torturata, massacrata, fucilata: le vittime, o una parte di esse, amano spesso i propri torturatori. Durante e dopo i funerali, le folle piangenti si accalcarono, si schiacciarono, si soffocarono: a terra rimasero migliaia di morti. Una folta nube di dolore coprì anche l’ Italia e la Francia. Non ricordo cosa disse Togliatti. Molti italiani piansero. In Francia, un episodio divertentissimo diede un lieve tocco di involontaria frivolezza al massimo funerale della storia. In quei tempi, Louis Aragon dirigeva Les lettres francaises, settimanale culturale del partito comunista. Anche lui soffrì e pianse. Nel numero di Lettres francaises, che uscì il 12 marzo 1953, paragonò la morte di Stalin alla morte di sua madre, avvenuta undici anni prima. Da tempo la madre aveva fiducia soltanto nel partito comunista; e, negli ultimi giorni di vita, che il figlio rievocava con commozione, ripeteva il nome di Stalin come in una giaculatoria. Chiedeva continuamente al figlio cosa aveva detto Stalin, là, nei lontani geli della Russia. Dubito che il figlio potesse risponderle: perché ormai le parole di Stalin erano ineffabili e impronunciabili, come quelle di Jahve tra le nubi e i suoni di tromba del Sinai. Con in mente quella doppia scomparsa, Louis Aragon ebbe un’ idea che, per sua sfortuna, giudicò brillantissima. In occasione della morte di Stalin, voleva pubblicare su Lettres francaises un suo ritratto: lo chiese al compagno Pablo Picasso, che aveva dipinto le «colombe della pace», diffuse per il mondo a decine di milioni di esemplari. Mai volo pacifico era stato così sinistro. Immagino che Picasso nutrisse una specie di simpatia per Stalin: doveva apprezzarne l’ ironia, la finta bonomia, il cinismo: sapeva che era un grandissimo mostro e lui aveva una conoscenza impareggiabile di tutti i mostri reali e fantastici. Pochi anni prima, Stalin aveva detto ad André Malraux una frase che, certo, aveva incantato Picasso: «Quanto a me, in arte, amo soltanto Shakespeare e il balletto». Picasso accettò l’ invito. Cominciò a disegnare rapidissimamente, come era sua abitudine. Non amava lo Stalin ufficiale: a cavallo sui monumenti sovietici, col glorioso petto carico di medaglie; né gli piaceva l’ Eroe della guerra patriottica, o il fedele compagno di Lenin, o il tremendo Sterminatore delle spie e dei traditori. A lui la storia interessava pochissimo. Il suo Stalin era un giovane contadino russo, con occhi profondi, folti baffi e una specie di strana innocenza. Forse, il suo Stalin non era ancora fuggito dal seminario, né aveva assalito banche e treni, e non immaginava ancora la Rivoluzione. Aragon non prevedeva la tempesta di indignazione e di maledizioni, che folgorò lui e Lettres francaises quando, il 12 marzo, il ritratto venne pubblicato. Sei giorni dopo, il partito comunista dichiarò: «La segreteria del partito comunista francese disapprova categoricamente la pubblicazione, su Lettres francaises del 12 marzo, del ritratto del grande Stalin disegnato dal compagno Picasso». Subito dopo, giunsero le lettere affrante e sconvolte dei comunisti di Parigi e della provincia. «Un simile ritratto non è all’ altezza delle dimensioni del genio immortale di Stalin». «Quando un operaio parla del nostro compagno Stalin, è sempre con rispetto e senza nessuna fantasia». «In questi giorni, i lavoratori hanno cercato nelle fotografie e nelle opere degli artisti, i tratti amati del compagno Stalin. La minima alterazione, la minima trasposizione del suo pensiero e del suo viso sono intollerabili». Nel disegno di Picasso, Stalin era stato calunniato. La luce, l’ intelligenza, la bontà, la grandezza, gli occhi dolcissimi che da settantatré anni guardavano amorosamente gli uomini che aveva redento: nemmeno un aspetto, un lineamento o un segno del «genio immortale» aveva lasciato una traccia nel disegno. Per molti anni, Aragon chinò il capo davanti agli ordini del partito, che gli imponeva di amare Stalin come la madre. Quanto a Picasso, parlando del suo disegno, disse: «Ho portato dei fiori per la sepoltura. Non sono piaciuti alla famiglia». Immagino che Stalin, nel profondo dei suoi confortevoli abissi, dove forse ammirava balletti infernali, abbia sorriso. P. S. Le notizie sulla storia di Aragon e di Picasso sono tratte da un bel saggio di Gérard Macé, compreso in Colportage III. Images, Gallimard 2001. Pietro Citati