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 2005  agosto 04 Giovedì calendario

Longanesi. La Repubblica 04/08/2005. Tra breve, il 30 agosto, saranno cento anni dalla nascita di Leo Longanesi

Longanesi. La Repubblica 04/08/2005. Tra breve, il 30 agosto, saranno cento anni dalla nascita di Leo Longanesi. Un anniversario troppo lungo per una vita troppo breve, la sua, che s´interruppe nel 1957, quando lo scrittore, romagnolo di Bagnacavallo (Ravenna), indomito e un po´ surreale censore dei nostri vizi nazionali, aveva cinquantadue anni. Improvvisa oltre che prematura, la sua morte sottrasse gli intellettuali, i politici e l´intera comunità dei lettori a un´inesauribile cascata di vituperi, di battute sarcastiche, di illuminanti aforismi e calembours. Il suo ingegno ilare e amaro avrebbe continuato a sommergerci. Ecco che cosa abbiamo perso. Ciò che conserviamo invece di lui, mentre la casa editrice che Longanesi fondò e che porta il suo nome si prepara a celebrarlo è presto detto: un paio di periodici, L´Italiano e Omnibus, consegnati all´ombra delle biblioteche e assai più celebrati che riletti. Una mezza dozzina di libri gremiti di uno humour aspro e desolato (per l´occasione la Longanesi ne ripubblica due, Parliamo dell´Elefante e La mia signora). Un mucchio di tavole a colori immerse in un vorace pessimismo. Che altro? La schiera dei discepoli di Longanesi, che fu foltissima, s´è assottigliata da tempo (vedi scheda a fianco). Anche per questo è difficile immaginare se, e come, a Longanesi toccherà in sorte quel generoso revival che merita. Certo, chi si accingesse all´operazione dovrebbe aver cura di disseppellire i mille talenti del personaggio perforando la coltre degli equivoci che egli stesso ha ammucchiato. Occorrerebbe andare alla ricerca di «ciò che veramente disse Longanesi» giorno per giorno, nelle sue molte reincarnazioni. Un suo allievo, Giuseppe Trevisani, provò una volta a farne l´elenco, che risultò iperbolico: «Scrittore», andò enumerando, «pittore, tecnico, disegnatore, antiquario, tipografo-editore, giornalista, polemista, direttore, esteta, politico, copywriter, bibliomane, artista, «idea-man», cronista, causeur, critico, umorista, pubblicitario, epigrammista, narratore». Longanesi fece tutto questo. Tutto, tecnicamente parlando, benissimo. E tutto, almeno come tornaconto personale, a fondo perduto. E infatti il dibattito che per molti anni è divampato intorno al suo nome non riguarda la morale ma la politica. Ancora oggi qualcuno continua a domandarsi quale tra i suoi figli e cugini (benché anch´essi sepolti dal tempo), gli somigliasse di più, ma soprattutto quale tradizione giornalistica sia meno lontana dal suoi esempi: quella radical-progressista, che dall´Europeo al Mondo e all´Espresso arriva fino alla Repubblica, o quella moderata nella quale si riconobbe Montanelli - dal Giornale alla Voce, a quella sua indomita rubrica di risposte ai lettori che tenne, fino alla morte sul Corriere della sera. Ma a questo punto dovrebbe essere chiaro che per un personaggio come Longanesi le parole destra e sinistra non hanno molto senso, e ne assumono volta per volta uno, a sbalzi, sulla scia di un estro non facile da catturare o decifrare. Il suo motto era la «disubbidienza», una connotazione puramente negativa. Il creatore di Omnibus era per vocazione (lo notò Moravia) l´Antagonista. Si tratta di un ruolo che egli stesso nel 1947 aveva sintetizzato in poche battute d´un dialogo immaginario. «Lei è democratico?». «Lo ero». «Lo sarà ancora?» «Spero di no» «Perché?». «Perché dovrebbe tornare il fascismo. Solo sotto una dittatura riesco a credere nella democrazia». Per il fascismo, infatti, Longanesi provò fino alla morte una sorta di rimpianto. Umorale. Snobistico. Ne ricordava con struggimento la comicità, la goffaggine. Per il suo ingegno graffiante era una palestra. Da qui, ciò che si potrebbe chiamare (lui non ci avrebbe mai autorizzati a farlo) una duratura contraddizione esistenziale. Mentre annotava nel suo diario, in data 11 dicembre 1938, «Io sono un carciofino sott´odio», Longanesi dedicava all´umanità esecrabile che lo circondava la stessa amorosa cura che uno scienziato profonde nell´allevare le sue cavie. Aveva ventidue anni, nel 1927, quando nei fascicoli dell´Italiano esordì come ritrattista di quest´umanità nazionale. Articoli, foglietti di diario, tavole a colori, incisioni: usava a questo scopo tutti i possibili tramiti espressivi, tranne la poesia (ma c´è chi ricorda quattro versi con i quali commemorò, alla sua maniera, l´assassinio di Umberto I: «Nella stazione di Monza - entra il treno che ronza. - Hanno ucciso il re - con palle tre»). Professionalmente, per Longanesi, gli anni d´oro furono la stagione tra il ’37 al ’39, quando inaugurò con Omnibus la tecnica dei settimanali in rotocalco. L´epoca era tagliata su misura per le sue doti. All´interno dello stesso regime circolavano diverse specie antropologiche: i fascisti «bisonti» alla Starace e i fascisti «pensosi» alla Bottai. Dosando i toni di fronda, si riusciva ad essere, insieme, criptodemocratici e criptofascisti. Longanesi tripudiava. Studiava i settimanali stranieri, dai francesi Candide, Gringoire, Marianne, Le Crapouillot, agli americani Life, Look, The New Yorker; e ciascuno gli offriva uno spunto, un dettaglio di stile. Nel suo talento di scrittore-disegnatore-cartellonista si mescolavano echi di Grosz, di Jules Renard, perfino di Toulouse Lautrec. Omnibus era un giornale a due livelli: fascista al di fuori (negli articoli politici), sprezzantemente iconoclasta nel fondo. «Non ci fu niente di magico», ricordava Arrigo Benedetti, che in quel giornale si era formato, «nel fatto che tutte le volte in cui Longanesi tentò di pagare un tributo al regime ne venisse fuori una satira». Non per questo Longanesi (simile in ciò a Malaparte) passava, agli occhi dei fascisti, come un oppositore «per eccessi apologetici»: occorreva troppo acume per capirlo. E´ suo il celebre motto: «Il Duce ha sempre ragione». Suo lo slogan che denunziava: «Biserta è una pistola puntata contro l´Italia». Suo il manifesto ammonitore: «Siamo in guerra» (1941), cui sembra fare da corollario una nota di diario più o meno coeva: «Non disturbate il cretino che lavora». Come respingere il sospetto che il cretino al lavoro fosse lo stesso che aveva sempre ragione? Nel gennaio del 1939 Omnibus fu soppresso con un pretesto. Aveva segnato una parentesi breve. Nel dopoguerra Longanesi non sarebbe stato ugualmente creativo. Appariva nostalgico, puntiglioso. La sua ipocondria sfociava in una sorta di nostalgia aggressiva, di cui era difficile cogliere i connotati psicologici. Il Borghese, l´ultimo suo giornale, s´andava allineando a una destra che non gli somigliava, quella dei reduci di Salò. Nel 1954-55, lo stesso Longanesi aveva tentato di fondare un movimento ultrà con scarsi seguaci, fra sabaudo e littorio. Come poteva aver successo in un´operazione del genere un uomo così radicalmente privo di demagogia come lui? Così all´antica, in quanto conservatore? Proprio il fastidio per le «masse», intese come parola e come concetto, gli aveva dettato un adagio di somma espressività: «Uno stupido è uno stupido. Due stupidi sono due stupidi. Diecimila stupidi sono una «forza storica»». E´ inutile dire che la vera lezioni di Longanesi risiede al di là delle sterili pulsioni che non gli somigliano. Resta utile e in qualche modo feconda - quella lezione - nel rifiuto delle verità ufficiali, nella sua «guerriera innocenza» (come la chiamava Vincenzo Cardarelli), nel gusto appassionato per il mestiere che accompagnò i suoi cinquantadue anni, e che mai si tramutò in opportunismo. Era troppo orgoglioso, maldicente e innamorato delle proprie battute per pensare di cavarne qualcosa di utile per sé. Semmai - lo ha rivelato nelle proprie memorie il suo amico Giovanni Ansaldo - nell´agitato trapasso fra fascismo e antifascismo, il piccolo intellettuale romagnolo era ossessionato dal timore che quei tanti che erano stati feriti dalle sue ironie gliela facessero pagare. Mai, o quasi, era il caso di prestare fede alle sue dichiarazioni di cinismo assoluto, del tipo: «In questo paese bisogna assolutamente mettersi a fare il padrone». In realtà, egli non era idoneo a salire sul palco del potere: sarebbe subito incespicato. Desiderava invece - con tutta l´anima, masochisticamente - restare sotto la pedana per sbeffeggiare i nuovi governanti, magari temendone le vendette. E così all´infinito. Intanto, di passioni gliene bastava una: idolatrava il lavoro in maniera sviscerata, nevrotica, superstiziosa. Allo stesso Ansaldo la signora Longanesi, madre di Leo, raccontava che qualche volta, quando un disegno per i suoi giornali non gli veniva bene, suo figlio gridava di voler morire; «desolazione ingenua», commentava l´amico, «di chi, in fondo, non conosce la vita». La sua natura lo spingeva a «conferire alle questioni estetiche un´importanza sproporzionata». Creatore d´immagini. Ecco la definizione riassuntiva che, forse, più gli sarebbe piaciuta. Immagini, in fondo, fini a se stesse. E soddisfacenti appunto per la loro surreale inutilità. «Un´altra settimana è trascorsa», scrisse Leo Longanesi poco prima di morire, «e mi sento più vecchio, vecchio di un´altra copertina. Ormai la mia vita è una fila di copertine. E´ tutta qui, in queste cose lasciate per via, e che qualcuno poi troverà e guarderà dopo anni e anni, per scoprire quel che si faceva una volta». Nello Ajello