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 2005  agosto 03 Mercoledì calendario

Che triste Italia senza più miti Solo letteratura da condominio. Corriere della Sera 03/08/2005. Biandrate, Novara

Che triste Italia senza più miti Solo letteratura da condominio. Corriere della Sera 03/08/2005. Biandrate, Novara. questa la pianura da cui Sebastiano Vassalli vide la tragica fine della strega di Zardino. Verde elettrico, qualche cascinale qua e là. La casa di Vassalli sta di fianco a una chiesetta, sul bordo di una strada di campagna da poco asfaltata. Il primo libro che ebbe l’ambizione di cambiare il mondo? O meglio di fondare un mondo nuovo? La risposta arriva immediata: «Il grande sogno è databile: 29 avanti Cristo. Virgilio fu raggiunto ad Atella da Mecenate e da Ottaviano e lì, nel teatro locale, Virgilio e Mecenate si alternarono nella lettura pubblica delle Georgiche. In quei giorni nacque l’idea dell’Eneide, il poema politico che doveva raccontare le origini di Roma, la speranza di unire tutto il mondo conosciuto, Oriente e Occidente, Nord e Sud, sotto il mito dell’Urbe». Il racconto di quella grande illusione fallita lo troverete nell’ultimo libro di Vassalli, Amore lontano. «L’illusione di cambiare il mondo attraverso la letteratura sarebbe sempre fallita, ma è un’illusione che aiuta a tenere in vita la letteratura». C’era un tempo, non molto remoto, in cui questa illusione abitò le menti degli scrittori italiani. «A chi diceva che la letteratura ambiva a guarire il mondo, Benedetto Croce rispondeva: strano ammalato questo mondo, che non è mai stato sano...». In Archeologia del presente, Vassalli ha rivisitato le ultime mitologie del secondo Novecento: «Ma il mondo è cambiato per i fatti suoi e non certo come noi lo volevamo. Qualcuno se n’è accorto solo l’11 settembre 2001 o un po’ prima, nell’89, con la caduta del Muro». Le utopie di Vassalli risalgono al Gruppo 63, un’esperienza ormai lontana per lui più che per altri scrittori: «Mi sono liberato di quel passato di utopie molto belle, che alla fine hanno fatto più danni che altro. Mi sono convinto che il vero impegno politico per uno scrittore è di tutt’altro genere e comunque non serve a niente». Non servì neanche l’intelligenza di Leopardi, sempre raccontata in Amore lontano, sulle «magnifiche sorti e progressive»? «Se c’è uno scrittore che ha riflettuto profondamente sulle vicende umane e politiche italiane è Leopardi: ha affrontato la questione nel modo giusto e non nei tempi brevi. Leopardi si impicciò poco nelle cose contemporanee del Risorgimento. Però colse i falsi miti del mondo che lo circondava, che sono i miti della modernità e del progresso. Si occupò di politica in senso grande e pieno, come secondo me dovrebbe fare ogni scrittore». E oggi quali sono i falsi miti su cui si dovrebbe soffermare l’attenzione dello scrittore? Vassalli non ha dubbi: «Viviamo la parabola discendente della modernità nata al tempo di Leopardi, la parabola discendente di quei miti fondati dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese: libertà, eguaglianza, fratellanza. Tutto sfumato in niente: ora sappiamo che se si realizzasse l’uguaglianza resterebbe il nulla». Ci resta comunque la democrazia. O no? «Nei tre secoli della cosiddetta modernità, le vie per raggiungere la democrazia sono state due. Una via utopica, che quando si è realizzata, come nel caso della Rivoluzione d’Ottobre, aspirando al governo del popolo, si è trasformata in oligarchia e poi in dittatura. L’altra è la via elettorale. Così, il governo degli individui è diventato il governo dei numeri. L’uomo elettorale voluto dalla politica non è lontano dall’uomo consumatore creato dall’economia e dall’uomo spettatore creato dalla Tv. Tutto sommato non sarebbe un mito in sé troppo negativo, solo che qualcuno adesso si è messo in testa di esportarlo come fosse una soluzione universale». In tutto questo, dove sta la letteratura? «Il compito dello scrittore sarebbe quello di riflettere su tempi lunghi, già ben sapendo che nessuno lo ascolterà, come accadde a Leopardi. Il fatto è che la filosofia del Settecento ha prodotto la grande narrativa dell’Ottocento, che è entrata in crisi nel secolo scorso e ora sta diventando afasia o ripetizione. Ci manca il carburante, che sono le mitologie alternative. Certo, concentrarsi su Berlusconi è una faccenda da condominio». I politici d’oggi non sono personaggi da romanzo? «La canottiera di Bossi può anche essere bella per uno scrittore, ma in genere la politica a livello di condominio è sempre più divertente ma anche sempre più scadente. Per fortuna il nostro Paese ha avuto una linea dominante più comica che tragica: siamo riusciti a trasformare in comiche anche le tragedie, duole dirlo ma è così. Se è sopravvissuta all’8 settembre, l’Italia può sopravvivere a tante cose. E in un Paese in cui al massimo ci sono le sparate di Calderoli, di che cosa si può scrivere?». Nella biografia di Vassalli c’è un fulmineo contatto con la politica-politica. Siamo nel ’92 e il Pci di Novara, ridotto a poca cosa, decide di allearsi con repubblicani e Rete: «Era difficile trovare un candidato al di sopra, o al di sotto, di ogni sospetto e proposero a me. Ci pensai e risposi no grazie. Un mestiere ce l’avevo già e ce l’ho ancora adesso: raccontare storie. Sono più attratto dal raccontarle che dal viverle». C’è chi le ha vissute e le ha raccontate: «Gli ultimi scrittori importanti sono quelli che hanno vissuto lo straordinario evento della guerra, che hanno avuto l’illusione di qualcosa di fondamentale di cui parlare. Il Calvino davvero interessante è il primo, fino alla Giornata di uno scrutatore. La grande letteratura nasce dallo scontro violento tra bene e male che si era materializzato in modo così corposo con la guerra: Levi, Fenoglio, Calvino... Dopo, come è arrivato tardi il miserello sviluppo industriale italiano è arrivato tardi anche chi ha pensato di raccontarlo e alla fine non è rimasto nulla che meriti di essere ricordato. Sciascia ha narrato la dimensione sommersa della Sicilia, però all’epoca del processo Notarbartolo tutto ciò che poteva essere raccontato sulla mafia era già stato detto. Sciascia l’ha solo riportato a galla». Neanche la lotta al terrorismo sembra aver prodotto grandi narrazioni: «Certi vergognosi slogan degli anni 70, tipo "Né con le Br né con lo Stato", hanno segnato un’olimpica distanza dell’intellettuale dalla realtà. Slogan che troviamo in Moravia e in tanti altri intellettuali di sinistra, slogan che interpretavano non tanto le posizioni politiche ma la piccolezza del mondo letterario del tempo. Al signor Moravia, quando veniva buio in casa, chi gliela accendeva la luce? Le Br o lo Stato? Chi gliela portava via la spazzatura? Le Br o la Nettezza urbana?». Eppure qualcuno, forse, si salva dal diluvio. L’ultimo scrittore attratto più dalla vita che dall’opera è stato Pasolini: «Il fatto è che siamo nati e vissuti in un’epoca sbagliata per la letteratura. L’avamposto della modernità sono ancora Joyce, Proust, Kafka, Musil, Gadda. Arbasino non ha tutti i torti. Siamo ancora qui a rimpiangere quei grandi scrittori del secolo scorso, non siamo riusciti a creare un’altra modernità. Forse è stata la realtà a impedircelo». Pasolini, dicevamo: «Certo, Pasolini ci ha creduto. Fu portatore di una sua disperata vitalità che buttò in faccia al mondo con posizioni umorali e personalissime. Ma a quale prezzo e con che risultati?». La «parabola discendente della modernità» non può produrre niente di buono? «Leopardi vedeva lontano. Si è capito dopo che aveva ragione: che il progresso ci aveva regalato un mondo invivibile, un mondo di bombe atomiche, un clima irrespirabile, un pianeta che se ne va a ramengo». Che cosa resta da fare allo scrittore oggi? «Può fare come il giapponese sull’atollo del Pacifico che non sa che la guerra è finita oppure cercare di interpretare questa realtà, rivisitando le storie del passato per andare a cercarne le radici. A me è capitato di farlo». Paolo Di Stefano