La Repubblica 14/08/2005, pag.36 Guido Rampoldi, 14 agosto 2005
Rampoldi sui mongoli. Torna il popolo a cavallo. La Repubblica 14/08/2005. Per quanto otto secoli fa i loro esploratori non si spinsero oltre la campagna di Udine, anche in Italia, così come in tutta l´Europa slava, i mongoli sono inseguiti dalla fama più sinistra che sia toccata ad un popolo
Rampoldi sui mongoli. Torna il popolo a cavallo. La Repubblica 14/08/2005. Per quanto otto secoli fa i loro esploratori non si spinsero oltre la campagna di Udine, anche in Italia, così come in tutta l´Europa slava, i mongoli sono inseguiti dalla fama più sinistra che sia toccata ad un popolo. Colpa dei loro avi. Sommando le cronache redatte da persiani, cristiani, cinesi e arabi, si ricava che Gengis khan tolse di mezzo dieci milioni d´umani in un mondo allora spopolato. Probabilmente le sue vittime furono assai meno, tuttavia i mongoli uccisero nei modi più vistosi. I principi e i loro sudditi che rifiutavano la resa furono bolliti, scuoiati, squartati, impalati, arrostiti a fuoco lento, ustionati a morte con l´argento fuso nelle orecchie, trasformati in prede di battute di caccia, tutti spettacoli organizzati per il sollazzo della truppa. Ai musulmani d´Oriente il khan era noto come "il Maledetto", l´Europa cristiana era certa che i suoi guerrieri discendessero dai mostri biblici Gog e Magog. Però i più grandi sterminatori che la storia ricordi furono allo stesso tempo geniali costruttori del più vasto impero mai apparso sulla terra, dal mar Giallo all´Europa occidentale; e quell´impero fu d´una tolleranza religiosa singolare non solo per il suo tempo. Così quando è finita con l´Urss anche la tutela sovietica sulla loro patria, i mongoli hanno deciso di fondare l´identità nazionale proprio su quel passato maledetto: hanno glorificato Gengis. La riabilitazione cominciò quindici anni fa, il giorno della festa nazionale. Nello stadio di Ulaan Bataar l´esercito sfilava davanti ai capi comunisti, quando sugli spalti due uomini srotolarono un drappo bianco e lo sollevarono in alto, così in alto che tutti riconobbero la faccia dipinta. Allora la folla ammutolì: per l´ideologia ufficiale da ottant´anni Gengis khan era un´anticaglia proibita. I libri di scuola lo liquidavano come un simbolo del più feroce pre-capitalismo feudale; e il fatto che i suoi mongoli avessero sterminato russi fino a Kiev e slavi fino a Cracovia lo rendeva particolarmente controrivoluzionario. Tutti guardarono verso il palco delle autorità: la nomenklatura pareva confusa. Poi qualcuno cominciò ad applaudire e l´applauso crebbe, dilagò nello stadio, fu un´ovazione: il Figlio del Cielo Eterno era tornato. Da allora è ovunque. Portano il suo nome il miglior albergo della capitale, la vodka più cara, la birra nazionale, l´unico Airbus delle linee aeree mongole, un´infinità di bar, ristoranti, imprese di turismo. Il partito ex-comunista l´ha riabilitato, da nemico dei popoli è diventato padre della patria. E quest´anno presiede alle cerimonie indette per l´ottocentesimo anniversario della fondazione dell´impero. Come per prevenire i dubbiosi, il premier mongolo in giugno ha avvertito: Gengis non fu cattivo come raccontano, "ebbe cattiva stampa". Ad un estraneo questo agganciare il nostro tempo al tredicesimo secolo può apparire bizzarro come quel programma della tv statale in cui il conduttore e le vallette, vestiti nelle sete larghe un tempo in uso alla corte imperiale, consegnano elettrodomestici ai vincitori. Ma per un quinto della popolazione, gli allevatori nomadi, la vita del Duecento è un´esperienza vissuta. "Tuttora essi applicano le regole prescritte dalla Legge universale dell´impero per leggere il cielo, ricavare le previsioni del tempo, allevare il bestiame, sapere cosa fare nel primo giorno di luna", mi disse a Ulaan Bataar Nasrain Nyam-Osor, rettore d´un´università che ovviamente porta il nome di Gengis khan. La realtà forse è meno romantica. Oggi molti nomadi cercano un compromesso con la modernità e per una parte dell´anno o definitivamente si vanno ad accampare alla periferia della capitale. Però non è infrequente il percorso inverso: nei somon, le cittadine costruite intorno a kombinat industriali oggi decrepiti, alcuni preferiscono la vita avventurosa del pastore alla disoccupazione o a stipendi medi che non raggiungono i 100 dollari al mese. I pastori irriducibili spesso raccontano che a Ulaan Bataar l´aria è "troppo pesante". I loro progenitori avevano così in sospetto le città che nella furia con cui le radevano al suolo si può sospettare un´avversione ideologica. La loro Legge universale tollerava le case in muratura ma prescriveva di non abitarvi in tanti, ritenendole sporche e contronatura. Condannava gli scavi come ferite inflitte alla Terra, che per un cavaliere errante rappresentava unicamente un´immensità da percorrere sopraelevati, e prescriveva di colmare ogni buco nel terreno, fosse pure il piccolo foro prodotto dal chiodo cui nelle soste si legava il cavallo. Otto secoli dopo queste prescrizioni non sono più osservate, se non da alcuni anziani; ma basta uscire da Ulaan Bataar per ritrovare, dopo qualche dozzina di chilometri, la Mongolia antica. Innanzitutto la sua vuota immensità. Con un´estensione pari a cinque Italie, la Mongolia ha meno abitanti di Roma (due milioni e mezzo). il Paese più spopolato del pianeta, uno spazio metafisico che i cartografi prosaicamente situano tra la Russia e la Cina. La letteratura di viaggio contemporanea in genere l´associa ad un´esperienza che l´Occidente ha perso, la percezione del nulla. Chi avesse voglia di attraversare le foreste del nord nell´unico modo possibile, a piedi o a cavallo, potrebbe procedere in linea retta per 400 chilometri fino alla Russia senza incontrare anima viva, a parte qualche evaso che inselvatichisce tra abeti e betulle, assediato dai lupi. Gli altopiani centrali, distese alluvionali bianche d´inverno e verde-tenue d´estate, stordiscono il viaggiatore privandolo delle proporzioni: mancando alberi, case o altri punti di riferimento, le colline ingigantiscono e il cielo si dilata. Le strade asfaltate intorno alla capitale diventano presto piste che si accavallano e si separano, oppure si estinguono dopo aver disegnato geroglifici incomprensibili. Il sud è un deserto di sabbia e di rocce, il Gobi, che nel passato inghiottì intere spedizioni cinesi. A chi vi si avvicina - lo racconta nel suo Gobi lo scrittore Roberto Ive, un cantore di quella terra - può capitare di incontrare alberi con la sciarpa votiva di seta blu, il khadag, legata intorno al tronco: sono gli ultimi alberi prima del nulla. Più avanti comincia un mondo primordiale dove anche il vento e la grandine sono in scala, cioè grandiosi come il Gobi. Come il paesaggio, così è quasi immutata la vita del popolo a cavallo. Tuttora abita nella tenda bianca che terrorizzò la cristianità. I russi la chiamano yurta, i mongoli gher, "casa". Circolare, bassa, smontabile in mezz´ora. Struttura modulare in bastoni; pareti in strati di lana pressata, il feltro, per trattenere il calore del focolare nei mesi freddi, quando la temperatura scende ai meno quaranta. Non è una vita facile, e per gli adulti la radio è l´unico svago. Ma se un bambino può scegliere tra la scuola e il cavallo, beh, non ha molte esitazioni. I nomadi cavalcano dall´età di sei anni. Usano l´animale soprattutto per pascolare greggi, yak e cammelli lanosi, ma è chiaro che cavalcano soprattutto per passione, con la facilità di bambini e adulti che trottano in schiere compatte di quattro o cinque animali affiancati. La loro destrezza confermò nei secoli l´opinione di tanti viaggiatori, per i quali non v´è cosa che i mongoli non riescano a fare dalla sella, perfino defecare. Tuttora un cavaliere scadente è così malvisto che due anni fa, quando chiesi ad un pastore nomade se fosse mai caduto da cavallo, la mia interprete si rifiutò di tradurre: la domanda è considerata gravemente offensiva. Ammettere un capitombolo equivale a confessarsi non solo inetto, ma anche menagramo, perché l´incidente conferma che la sfortuna aleggia sulla famiglia del disarcionato. Quando gli ho chiesto se questa superstizione nasca dal fatto che Gengis khan morì per i postumi d´una caduta da cavallo, lo storico Namsrain Nyam-Osor m´ha corretto vigorosamente: l´imperatore non rovinò mai a terra, solo storici incauti credono a questa diceria. "Benché sessantenne non poteva incappare in un incidente così disastroso. Era sempre affiancato da cavalieri pronti a sorreggerlo". Per molti cavalieri in erba l´iniziazione avviene con il Nadaam, la Festa, una corsa a cavallo che vede centinaia di bambini e adolescenti galoppare per due ore e decine di chilometri, all´occorrenza pestandosi senza pietà con il manico d´osso dei frustini. Chi in quei giorni s´avventuri a piedi dalle parti del traguardo, dove il traffico equestre è più intenso, non solo si sente precario come un pedone in autostrada, ma soprattutto capisce il disprezzo atavico che il popolo a cavallo nutre per l´appiedato, in particolare per il contadino, dunque per il cinese. Agli occhi del cavaliere nomade l´unica vita degna è mobile e sopraelevata, un moto perpetuo regolato dal cielo, un flottare nell´aria fina e nel vento; per converso il popolo dei campi, sedentario, infangato e chino sulla terra, rappresenta un´umanità bruta. "Il mondo è fondato sull´agricoltura", era scritto ancor prima di Cristo in testa agli editti dell´imperatore cinese. Quando i mongoli conquistarono la Cina settentrionale, discussero a lungo se lasciare in vita una popolazione così sordidamente agricola. Per quanto in seguito siano stati gli stanziali dettare la loro legge, gli allevatori nomadi o semi-nomadi, oggi mezzo milione, hanno dimostrato una certa capacità di resistere. Parevano spacciati già negli anni Trenta, quando il regime filo-sovietico confiscò il bestiame e irreggimentò proprietari e pastori nei nigdel, sorta di kolkhoz per allevatori. Distrutti i templi buddisti, che nella popolazione nomade avevano il serbatoio delle vocazioni, fucilati gli sciamani, banditi i monaci, sembrò sparire anche la civiltà del nomadismo mongolo. Ma sessant´anni più tardi, al crollo del comunismo, si scoprì che i nomadi non erano meno buddisti di prima, e nel frattempo s´erano perfettamente adattati al collettivismo, ricavandone non solo i vantaggi (collegi invernali per i bambini, pensione, un minimo d´assistenza medica) ma anche un certo lucro. Erano così integrati in quel sistema che all´inizio degli anni Novanta, quando gli ex stalinisti si convertirono d´incanto al liberismo, i nomadi si trovarono in difficoltà. Il governo rinunciò a riformare i nigdel e li abrogò frettolosamente, ritenendo che il nomadismo assistito non avrebbe mai portato attivi allo Stato. Il bestiame fu privatizzato. Parte degli allevatori vendette la propria quota di bestiame e si trasferì in città per tentare d´arricchirsi. Nella capitale molti di loro oggi ingrossano le fila degli alcolisti. Altri tentano di trovare una via d´accesso onorevole alla modernità. Guido Rampoldi