Varie, 10 agosto 2005
BELLOCCHIO
BELLOCCHIO Piergiorgio Piacenza 15 dicembre 1931. Critico letterario • « il vero ”eretico” della cultura italiana. Dopo la stagione dei Quaderni piacentini, che fondò nel 1962, si è ritirato a vita privata pubblicando pochi libri (che raccolgono i suoi saggi) e avviando nell’85, con Alfonso Berardinelli, una rivista che sin dal titolo, ”Diario”, rivelava intenzioni ben diverse. Piergiorgio Bellocchio non ama la politica, forse non l’ha mai amata, rifiutando più di un invito a presentarsi come indipendente nelle liste del Pci. ”Non ho mai preso la tessera del Pci. Mi allontanavano la sua chiusura culturale, il dogmatismo, la doppiezza dei dirigenti. Ma dal ’53 ho pressoché sempre votato Pci, cioè con e per il popolo comunista, i migliori italiani che io abbia conosciuto. Ora rimpiango anche i dirigenti: avevano capacità, senso del dovere, carattere e un’onestà di cui s’è perso il ricordo [...] La politica mi annoia e disgusta. diventata un mestiere. Coincide perfettamente con gli affari. Le mani sui soldi. Quando non sono affaristi in proprio, i politici sono mediatori e procuratori d’affari. Col tempo che passa rivaluto la vecchia classe togliattiana e quella degasperiana. Anche i socialisti di Nenni e Saragat. E tanto più gli Ernesto Rossi, Calogero, Jemolo... E i loro maestri Croce ed Einaudi. Berlinguer? Era un uomo rispettabile, ma aveva una quota di moralismo eccessiva: nello scontro con Craxi un vero politico avrebbe fatto meglio [...] Togliatti riuscì a integrare la classe operaia nello Stato, un evento prefigurato dalla Resistenza, sia pure su scala ridotta. Resistenza peraltro rimossa dallo stesso Pci, e addirittura criminalizzata dal potere. Con gli Anni Sessanta c’è stata una rivalutazione dei suoi valori, però su basi spesso equivoche”. Per questo Bellocchio non esita a individuare il suo ”libro della vita” nelle Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, uscite nel ’52: ”In una fase di involuzione clerico-fascista, a me che avevo vent’anni apparvero come la scoperta di un’altra Italia [...] Quaderni piacentini nasce in coincidenza con la ripresa della lotta alla Fiat. La Fiat era il centro d’Italia e la classe operaia era per definizione la classe rivoluzionaria. Dalla fine dei Sessanta, la ristrutturazione produttiva riduce via via, anche quantitativamente, il peso della classe operaia, viene meno ogni ipotesi rivoluzionaria. Marxisticamente, il ’68-69 non è stato un inizio, ma un epicedio” [...] Più che nei Quaderni piacentini, oggi Bellocchio si riconosce in ”Diario”: ”L’ho fatto con passione e pieno coinvolgimento. L’abbiamo interrotto nel ’93 perché ci siamo trovati di fronte a una situazione ancora peggiore di quella che il nostro pessimismo aveva pronosticato”. E le polemiche contro Eco, e ancora contro la neoavanguardia? ”Risponderei come Kent nel Re Lear: non mi piacevano le loro facce. Un fenomeno di autopromozione. Si scagliavano contro Bassani, Cassola, la Morante... La neoavanguardia non ha prodotto un solo libro che fosse meglio del più brutto romanzo di Cassola. I romanzi di Eco? Non esistono. [...]”. Passando agli Anni Settanta, ripensa a Pier Paolo Pasolini:’Ebbe un fiuto, un istinto, un’intelligenza sociologica fuori dal comune. Gli è stato rimproverato il lato nostalgico, ma la nostalgia non è un sentimento negativo in sé. [...]”. Da Pasolini a Franco Fortini il passo è breve: ”Aveva un’attitudine magistrale eccellente. Ho imparato molto da lui, ma me ne sono anche difeso. Mi trovava non abbastanza marxista. Ci restavo male, perché allora il nostro desiderio era di essere veri marxisti (critici certo, ma marxisti), in realtà era la mia fortuna. Fortini vedeva bene il mio lato borghese e anarchico. Dei miei racconti usciti nel ’66, che aveva apprezzato e quasi tenuto a battesimo (il titolo I piacevoli servi è suo), una volta gli scappò di dirmi: quanto sono anticomunisti! Ma non era una censura. Invece sull’intervento politico era severo [...]”» (Paolo Di Stefano, ”Corriere della Sera” 10/8/2005).