Varie, 10 agosto 2005
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Dallaire Romeo
• Denekamp (Olanda) 25 giugno 1946. Generale • «’Il paradiso fu assalito dal diavolo e il diavolo fece del suo meglio per distruggerlo”. Con questa metafora il generale Romeo Dallaire spiega cosa ha vissuto in Ruanda nei 100 giorni del genocidio, uno dei più feroci del XX secolo. Durante quel periodo, il militare canadese era a capo della missione di peacekeeping dell’Onu di stanza in Ruanda. Abbandonato dal Palazzo di Vetro con pochissimi uomini e senza autorizzazione a intervenire con le armi, il generale dovette assistere impotente al massacro di centinaia di migliaia di Tutsi per mano di fanatici Hutu. [...] Dallaire è un uomo d’azione, che in quel momento rappresentava l’unica speranza d’aiuto agli occhi di migliaia di persone condannate a morire senza ragione. Ma è anche un militare a cui la realpolitik e i giochi di potere che dominano l’Onu hanno impedito di intervenire, coinvolgendolo, suo malgrado, in uno degli episodi più vergognosi della storia contemporanea. Nell’aprile del 1994, il ricordo della difficile missione in Somalia, in cui i militari nordamericani soffrirono una delle peggiori sconfitte dai tempi del Vietnam, era ancora troppo fresco perché le potenze occidentali fossero pronte per impelagarsi in un altro conflitto africano. Ma, come ricorda Dallaire in un discorso tenuto a un gruppo di studenti universitari ruandesi, nello stesso momento, ”la comunità internazionale era pronta a intervenire in Jugoslavia. I loro conflitti etnici e religiosi erano visti come conseguenze storiche comprensibili e la Jugoslavia era importante per la sicurezza europea, mentre i vostri conflitti venivano liquidati come tribalismi e il vostro paese non rappresentava nulla per loro”. Il generale è molto esplicito nell’accusare le grandi potenze di aver ignorato la situazione in Ruanda pur conoscendo benissimo quello che stava succedendo. Come avrebbe potuto la chiesa cattolica non sapere che all’interno delle sua chiese, a volte addirittura con la connivenza di alcuni preti, migliaia i fedeli venivano uccisi a colpi di machete? E la Francia, che aveva aiutato a addestrare i soldati dell’esercito ruandese fino a pochi giorni prima che questi cominciassero la loro opera di pulizia etnica, era allo scuro di tutto? Che dire poi dei 2500 soldati italiani, belgi e francesi che - tre giorni dopo l’inizio della crisi, quando già i corpi mutilati di centinaia di Tutsi e Hutu non sciovinisti ingombravano le strade di Kigali - arrivarono armati di tutto punto per salvare gli espatriati bianchi rimasti intrappolati nel paese, e se ne ripartirono subito dopo senza muovere un dito per aiutare i locali? [...]» (Nicola Scevola, ”il manifesto” 9/8/2005).