Nello Ajello, La Repubblica, 01/08/2005, 1 agosto 2005
Il secolo sbagliato di Arthur Koestler, La repubblica, 01/08/2005 Nel lontano 1950, al culmine della guerra fredda, Palmiro Togliatti definì Arthur Koestler un "redattore onorario del Travaso", attribuendogli un’ attitudine comica che lo abilitasse a diffondere le più volgari e ridanciane fandonie
Il secolo sbagliato di Arthur Koestler, La repubblica, 01/08/2005 Nel lontano 1950, al culmine della guerra fredda, Palmiro Togliatti definì Arthur Koestler un "redattore onorario del Travaso", attribuendogli un’ attitudine comica che lo abilitasse a diffondere le più volgari e ridanciane fandonie. Ora che per lo scrittore e memorialista ungherese si avvicina il centenario della nascita - era venuto al mondo a Budapest il 5 settembre del 1905 - quella definizione risalta in tutto il suo arrogante manicheismo. E appare poco pertinente perfino come ingiuria. Chi oggi si tuffi nelle migliaia di pagine che Koestler ci ha lasciato morendo nel 1983, non vi troverà la minima traccia di umorismo, neppure quel sorriso liberatorio e lievemente snob che increspa a tratti la prosa di un George Orwell (per parlare di uno scrittore a lui contiguo). Il terreno che Koestler percorre nei suoi libri è piuttosto quello della descrizione di sé, come esemplare campione di un secolo sbagliato. Ad animare le sue pagine è una razionalità così tesa ed esigente da diventare sarcasmo appuntito o, se si preferisce, nevrosi appassionata. La sua specialità è il grottesco, un miscuglio di amarezza e di protesta. Le sue metafore sono il prodotto di un ingegno straordinariamente lucido, ma del tutto privo di gaiezza. Nel volume Schiuma della terra - che il Mulino, la casa editrice di quasi tutte le sue opere, ripubblicherà per celebrarne il centenario (pagg. 296, euro 12, in libreria da fine agosto) - lo scrittore documenta le proprie avventure di "straniero indesiderabile" in Francia fra lo scoppio della seconda guerra mondiale e i rigori parafascisti del regime di Philippe Pétain. Ma come accade per gli autori eminentemente descrittivi e "seriali", i blocchi mnemonici scavalcano i suoi libri, gli si ordinano nella mente in una sequenza che scorre autonoma da copertina a copertina. Tra Freccia nell’ azzurro, che concerne la gioventù di Arthur Koestler, e Schiuma della terra, si colloca quella toccante autobiografia 1932-1940 che è La scrittura invisibile. Dal complesso di queste testimonianze emergono un raro impegno etico-politico e una sensibilità resa acuta dalle traversie e dalle persecuzioni. Ebreo, plurilingue e cosmopolita, a ventisette anni Koestler è già un "giornalista veterano" e, contemporaneamente, "un membro della corporazione mondiale comunista". Questa duplice qualifica - inviato speciale e militante politico - lo accompagnerà in una fitta sequenza di avversità storiche. Arthur è in possesso di ciò che lui stesso chiamerà "il dono di Cassandra", cioè un istinto che lo rende avvertito rispetto ai sintomi premonitori delle catastrofi come un "reumatico ai cambiamenti del tempo". Della sua presenza nei punti caldi del mondo, l’ intera sua produzione è un promemoria fedele e, in molti casi, drammatico. Tutto comincia quando Koestler, redattore per i giornali della catena Ullstein, il maggiore gruppo editoriale liberale della Germania, viene licenziato per la sua appartenenza al partito comunista tedesco. è lo stesso partito che lo invierà, munito di una lettera d’ accredito del Comintern, in Russia, con l’ incarico di scrivere un lungo reportage sul Piano Quinquennale. Il suo stato d’ animo somiglia a quello d’ un sionista che si avvicini alla Terra promessa. Alla frontiera dell’ Urss, egli dice, "avrebbe cambiato treno per il ventesimo secolo". Ma il disinganno è nelle cose. La patria della Rivoluzione Koestler la raggiunge proprio all’ apice di una carestia che ha provocato ecatombi. Milioni di kulaki sono stati deportati in Siberia, altri milioni intasano i treni, s’ accampano nei mercati o muoiono per le strade d’ un paese reso nomade dalla fame. Cinque mesi per visitare il paese di Stalin dalla Russia Bianca all’ Ucraina, dalle repubbliche autonome di Georgia, Armenia e Azerbaigian al Turkestan, e poi giù fino alla frontiera afgana e su di nuovo fino a Buchara, Samarcanda e Tahkent, infine a Mosca via Kazakistan. A bordo, volta per volta, d’ un treno, d’ un piroscafo, di un’ auto o in groppa a un cavallo: "quest’ ultimo mezzo di locomozione" essendo "di gran lungo il più comodo. Non si può sovraffollare un cavallo". In decine di città, tra una folla di nuove conoscenze, molte delle quali femminili, fra intellettuali innamorati del regime o in odore di spionaggio, il cronista del Comintern avverte i primi scricchiolii della sua fede. L’ elemento unificante che s’ irradia da Mosca al villaggio più remoto è la burocrazia come divinità primitiva (non a caso lo scrittore ravvisa in un ufficiale di polizia i lineamenti di un "burocrate di Neanderthal"); una divinità che si associa, in una troika perfetta, con l’ arbitrio della polizia e i metodi kafkiani della giustizia. è qui che un intellettuale mitteleuropeo del suo rango può constatare come, "nel breve arco di tre generazioni, il movimento comunista sia passato dall’ età degli apostoli all’ età dei Borgia". Siamo agli albori di quella "psicologia dell’ ex", tipica di Koestler, che gli avrebbe dettato nel 1940 un’ opera lancinante ed estrema, come Buio a mezzogiorno. Sarà, quel libro, una visisezione dei meccanismi inquisitori ai tempi di Stalin e dei tetri processi di Mosca: è lì, che in forme romanzate ma assai crude e partecipi, l’ ex viandante in terra sovietica scruterà l’ atroce contrapposizione fra i militanti stalinisti che tripudiano e gli apostati, pur dotati alla causa originaria della Rivoluzione, che appaiono ridotti alla paralisi e dediti alla morte. "Storia in veste di romanzo", Benedetto Croce giudicò il libro; e vi scorse, ammirato, un atroce affresco di quel fanatismo che suole affiorare nelle vicende umane. Ma per Koestler non è stato né breve né facile l’ itinerario che conduce alla ribellione man mano che il bolscevismo giovanile si tramuta nella sua mente in un’ adesione ai principi di libertà e in una riconquista della propria dimensione d’ individuo. Nella sua mente, quella via s’ era snodata a zig zag prima di consentirgli di scolpire quel romanzo - Buio a mezzogiorno, appunto - che sembra fare da monumento a un secolo. Quando l’ utopia sembrava sul punto di diventare indifendibile, ecco che qualcosa interveniva per ritardarne la caduta. "Io avrei probabilmente lasciato il partito comunista dopo il mio ritorno dalla Russia nel 1933", racconta Kostler nella Scrittura invisibile, "se nel frattempo la Germania non fosse diventata nazista. I processi-farsa del 1936-38 disgustarono molti comunisti europei, ma la minaccia fascista, simboleggiata dalla guerra civile spagnola" (della quale Koestler sarebbe stato un appassionato reporter nel Dialogo con la morte) "li disgustò ancora di più". Nell’ offrire agli ex comunisti in pectore simili pretesti che ritardavano la loro scelta fatale, l’ Occidente è generoso, negli anni Trenta. Al ritorno dall’ Unione Sovietica, sbarcando nella stazione di Vienna, lo scrittore si sente "eccitato come uno scolaretto scappato da un austero collegio per una matinée al circolo". Ma le delusioni non tardano a venire. In Ungheria, il regime parafascista dell’ ammiraglio Horty comincia a impiccare gli oppositori. A Parigi, dove Koestler si trattiene non potendo tornare nella Berlino ormai nazista, non si parla che del processo per l’ incendio del Reischstag, argomento capace di tenere "l’ Europa sotto un incantesimo". E così, ancora una volta, annota lo scrittore, "quando la mia fede cominciò a vacillare, Hitler le diede un nuovo e potente impulso". I gauchiste di tutte le professioni sono desolati per le sconfitte che la sinistra, quasi senza lottare, subisce sotto l’ incalzare del nazismo. Lo spettacolo dell’ antifascismo sempre perdente li riempie di frustrazione. Ma ormai i fili del racconto che Koestler dedica a se stesso e al secolo che lo ha ospitato in vita diventano molteplici. I suoi spostamenti prendono un ritmo frenetico. Antinazista e comunista in transito verso l’ abiura, munito dei passaporti più impensati, egli fa parte ormai di quella compagnia di coraggiosi che vengono associati, - nella stagione in cui Hitler e Stalin trionfano in parallelo o in combutta - a tutti i possibili drammi di una politica impazzita. Una sorta di bohème coatta assimila i membri di questa congrega, inquilina di tante carceri. Rileggeremo, in appendice a Schiuma della terra una commossa descrizione che Leo Valiani dedica al campo di concentramento di Vernet, sui Pirenei, dove le autorità francesi internano i perseguitati politici di tutti i paesi fascisti d’ Europa. Lì Valiani e Koestler s’ incontrano e convivono per mesi. Valiani, che Kostler ribattezza "Mario", è il primo a leggere il manoscritto in tedesco di Buio a mezzogiorno. Parigi, Zurigo, Lugano, di nuovo Parigi: la scelta del domicilio dipende dalla possibilità di nascondersi meglio. Poligrafo, incontinente, autore fra l’ altro di un’ enciclopedia del sesso, Koestler aveva avuto la sua prova del fuoco in Spagna, dove era accorso poco dopo la sollevazione di Franco, inviato speciale del New Cronicle, un giornale antifascista. Preso e condannato a morte all’ arrivo delle truffe franchiste a Malaga, era riuscito a salvarsi in seguito a uno scambio di ostaggi. Fra tante trasferte avventurose, si consumava il suo distacco dal comunismo. Esso venne sancito in maniera definitiva nella primavera del ’38. La sua militanza nella chiesa rossa non era stata lunga, ma egli si sarebbe sentito uno "spretato" per altri quarantacinque anni, fino alla morte. Barricadiero, intransigente, generoso. Un vero ex comunista. Si potrebbe dire con un sospiro: come quelli di una volta. La scomparsa di Arthur Koestler dal suo secolo fu in linea con la secca, antiretorica laicità che vi aveva profuso. Il 3 marzo 1983, un giovedì, afflitto dal morbo di Parkinson, decise di uccidersi insieme alla moglie, dopo aver apprestato una dose adeguata di barbiturici. Detestava - l’ aveva anche scritto - l’ idea di vivere in uno stato di non perfetta coscienza. Era un sostenitore del diritto all’ eutanasia, un principio di libertà. E intese la morte come una scelta critica: l’ ultima. NELLO AJELLO