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 2005  luglio 29 Venerdì calendario

Tocqueville, tra le ombre della democrazia, La Repubblica 29-07-05 Era poco più che trentenne Alexis de Tocqueville allorché, con la pubblicazione nel 1835 del primo volume della Démocratie en Amérique, impose la propria originalità di studioso e di scrittore politico nella Francia colta della monarchia orleanista, una reputazione destinata ben presto a estendersi anche al di là della Manica e dell’ Atlantico con l’ uscita della traduzione del libro in Inghilterra nel 1838

Tocqueville, tra le ombre della democrazia, La Repubblica 29-07-05 Era poco più che trentenne Alexis de Tocqueville allorché, con la pubblicazione nel 1835 del primo volume della Démocratie en Amérique, impose la propria originalità di studioso e di scrittore politico nella Francia colta della monarchia orleanista, una reputazione destinata ben presto a estendersi anche al di là della Manica e dell’ Atlantico con l’ uscita della traduzione del libro in Inghilterra nel 1838. E proprio scrivendo al suo traduttore inglese, con il preciso intento di rendergli il più possibile chiaro il senso generale dell’ opera in rapporto al suo punto di vista critico sul passaggio storico in atto, egli formula una di quelle illuminanti testimonianze di sé che costellano il suo sterminato epistolario e ne fanno una fonte indispensabile della coerente evoluzione della ricerca che ha occupato l’ intera sua esistenza. Si tratta di una lettera che vale la pena di citare per esteso per l’ affascinante limpidezza con cui Tocqueville riesce a enucleare in pochi tratti il suo pensiero, ormai pienamente maturo, inquadrandolo intenzionalmente nella propria personale esperienza. "Sono venuto al mondo alla fine di una lunga Rivoluzione che, dopo aver distrutto l’ antico Stato, non aveva creato nulla di durevole. L’ aristocrazia era già morta quando cominciai a vivere e la democrazia non esisteva ancora; il mio istinto non poteva dunque spingermi ciecamente né verso l’ una né verso l’ altra. Abitavo un paese che nell’ arco di quarant’ anni aveva tentato di tutto senza arrestarsi definitivamente a niente, dunque, non ero affatto facile in fatto di illusioni politiche. Facendo io stesso parte dell’ antica aristocrazia della mia patria non avevo alcun rancore né gelosia naturale contro di essa ed essendo questa aristocrazia distrutta, non le portavo più alcun amore naturale, poiché non ci si lega fortemente che a ciò che vive. Le ero assai vicino per poterla conoscere bene, lontano abbastanza per giudicarla spassionatamente. Direi altrettanto per l’ elemento democratico. Nessun ricordo di famiglia, nessun interesse personale mi forniva una propensione naturale e necessaria verso la democrazia. Ma non ne avevo, per parte mia, ricevuto alcuna offesa; non avevo alcun motivo particolare di amarla né di odiarla, indipendentemente da ciò che mi consigliasse la ragione. Ero così ben in equilibrio tra il passato e l’ avvenire da non sentirmi naturalmente e istintivamente attratto né verso l’ uno né verso l’ altro, e non ho affatto avuto bisogno di grandi sforzi per gettare uno sguardo tranquillo dalle due parti". La preoccupazione manifestata da Tocqueville in questa celebre lettera era che il traduttore attenuasse il forte sapore innovativo di quella nuova scienza politica di cui aveva cercato di permeare il libro, per la quale l’ avvio del ciclo storico della democrazia andava considerato col massimo disincanto, senza lasciarsi condizionare da istinti o principi personali, essendo il ciclo dell’ aristocrazia definitivamente esaurito. Ma al di fuori di questa preoccupazione, nell’ intimità di una riflessione affidata ad un appunto strettamente privato, probabilmente risalente al suo esordio nella carriera parlamentare tra il 1839 e il 1840, allorché era afflitto dalla necessità di trovare una collocazione politica tra le diverse consorterie che nell’ emiciclo della Camera dei deputati si richiamavano alla sinistra dinastica, Tocqueville non esitò invece a rifugiarsi nel suo istinto come ultima istanza della propria verità personale, distinguendolo in tal modo nettamente dai principi della propria scienza: "L’ esperienza mi ha provato che in quasi tutti gli uomini, in me certamente, si torna sempre ai propri istinti fondamentali e che si fa bene soltanto ciò che è conforme ai propri istinti. Allora cerchiamo con onestà dove siano i miei istinti fondamentali e i miei principi seri. Ho per le istituzioni democratiche un gusto della mente, ma sono aristocratico per istinto, cioè disprezzo e temo la folla. Amo con passione la libertà, la legalità, il rispetto dei diritti, ma non la democrazia. Questo il fondo dell’ anima. Odio la demagogia, l’ azione disordinata delle masse, il loro intervenire violento e poco lungimirante nelle questioni politiche, le passioni invidiose delle classi basse, le tendenze irreligiose. Questo il fondo dell’ anima. Non sono né del partito rivoluzionario, né del partito conservatore. Ma tuttavia e dopo tutto, tengo più al secondo che al primo. Infatti dal secondo differisco nei mezzi piuttosto che nel fine, mentre dal primo differisco, insieme, nei mezzi e nel fine. La libertà è la prima delle mie passioni. Questa è la verità". è nell’ apparente contraddizione di queste come di tante altre testimonianze che trova la sua radice l’ immagine leggendaria, accreditata già dalla maggior parte degli autori che hanno preceduto il grande revival tocquevilliano del secolo scorso, d’ un pensatore perennemente sdoppiato tra cuore e ragione, tra la sensibilità e i gusti propri della sua origine sociale e le convinzioni scaturite dalla comprensione fredda e razionale del processo storico in atto. In realtà, egli ha sempre manifestato una colpevole intenzione di estraneità rispetto alle ragioni del progresso come a quelle della reazione, e pertanto di relativo isolamento nei confronti sia della grande cultura borghese della Restaurazione e della Monarchia di luglio, sia del pensiero tradizionalista e legittimista. La definizione di Tocqueville come d’ "un aristocratico vinto che accetta la propria disfatta", attribuita da Sainte-Beuve a Guizot, risulta straordinariamente acuta solo se depurata d’ ogni alone di passiva rassegnazione, poiché egli ha sempre utilizzato il punto di vista fornitogli dalla propria condizione sociale, tutto permeato di valori predemocratici, a cominciare dalla sua concezione della libertà, per consentire al suo sguardo di sondare con il giusto effetto di distanza le profondità del sommovimento livellatore connesso allo sviluppo del ciclo democratico. E le due citazioni, poste in apertura del nostro racconto, possono essere considerate come le coordinate permanenti entro le quali il suo pensiero e la sua prassi erano destinate a svilupparsi in assoluta coerenza: da un lato la convinta assunzione del movimento egualitario della storia, dall’ altro l’ incessante allarme che questo movimento, implicando necessariamente le classi subalterne, mettesse capo a forme politiche negatrici della libertà. Ma fu solo verso i suoi vent’ anni che questo atteggiamento critico cominciò ad ispirare e orientare la sua ricerca. Negli anni precedenti Tocqueville aveva vissuto l’ infanzia e la prima giovinezza in un ambiente familiare carico di reminiscenze crudeli, se recenti, e nostalgiche se riferite alla douceur de vivre di "prima della Rivoluzione". L’ angelo della storia s’ era presentato per la prima volta ad Alexis fanciullo come più d’ un secolo dopo sarà raffigurato da una leggenda novecentesca presto convertita in luogo comune: con la testa voltata all’ indietro, a contemplare il paesaggio di rovine ancora fumanti d’ una arcadia irrimediabilmente perduta. UMBERTO COLDAGELLI