3 agosto 2005
Tags : Park Chul-Soo
PARK CHUL-SOO Nato a Kyong-Buk (Corea del Sud) il 20 novembre 1948. Regista. «[...] tra la seconda metà degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 è stato tra i primi cineasti coreani ad attrarre l’attenzione dei festival internazionali, in un epoca ben lontana dai contemporanei fasti dei blockbuster locali che hanno riconquistato il mercato nazionale a Hollywood, e dalle affermazioni cannensi e veneziane della nuova generazione dei Park Chan-wook, Kim Ki-duk e Lee Chang-dong
PARK CHUL-SOO Nato a Kyong-Buk (Corea del Sud) il 20 novembre 1948. Regista. «[...] tra la seconda metà degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 è stato tra i primi cineasti coreani ad attrarre l’attenzione dei festival internazionali, in un epoca ben lontana dai contemporanei fasti dei blockbuster locali che hanno riconquistato il mercato nazionale a Hollywood, e dalle affermazioni cannensi e veneziane della nuova generazione dei Park Chan-wook, Kim Ki-duk e Lee Chang-dong. Con due drammi a metà degli anni ’80, Woman Requiem (1985) e A Pillar of Mist (1986), Park si affermò come regista in sensibile ascolto della donna coreana, mentre negli anni ’90, una serie di caustiche commedie, 301/302 (1995), Farewell My Darling (1996) e Push! Push! (1997), ne hanno confermato il graffiante senso critico. Nel 1998 Park dirige Kazoku Cinema, film nel film sulle relazioni traumatiche all’interno di una famiglia nippo-coreana. Primo film coreano girato in giapponese dai tempi dell’atroce occupazione coloniale (solo all’epoca si cominciava una contingentata apertura del mercato coreano a film, animazione e manga giapponesi fino allora banditi), Kazoku Cinema fu considerevolmente boicottato dall’opinione pubblica e segnò una battuta d’arresto per Park. [...] Green Chair, eccellente dramma erotico incentrato sulla relazione ”criminale” tra una trentaduenne e un diciannovenne (la donna finisce in galera per aver sedotto un minore), che mette sapidamente alla berlina le ipocrisie e problematizza la discriminazione di genere che caratterizzano la forma mentis confuciana della società coreana, completato nel 2003, è rimasto bloccato per due anni, e solo dopo essere stato al Sundance e a Berlino ha trovato fugace distribuzione in patria. [...] ”Quando ero ragazzo il mio sogno non era fare cinema ma uscire dalla povertà. Le condizioni economiche della mia famiglia, come molte nel dopoguerra, erano estremamente disagiate. All’epoca volevo diventare un insegnante. Ero un ottimo studente così riuscii a ottenere delle borse di studio per finire i miei studi universitari. Durante gli anni d’università ho partecipato all’attivismo studentesco e alla contestazione contro il regime di Park Chun-hee, ma purtroppo sono stato spedito in Vietnam a combattere per gli americani (la Corea del Sud fu l’unico paese ad inviare contingenti di supporto alle truppe Usa in Vietnam in cambio d’ingenti sostegni economici ndr). Completati gli studi non mi sentivo pronto a iniziare la carriera d’insegnante, non mi ritenevo abbastanza bravo. Prima dell’università non avevo visto che un paio di film, la mia famiglia era così povera che persino i biglietti del cinema per noi erano un lusso. Poi ho scoperto i film di Shin Sang-ok; il suo lavoro è stato per me la maggiore fonte d’ispirazione. Quando sono entrato a Chungmuro (il quartiere di Seoul dove avevano sede i maggiori studios cinematografici, il cui nome è divenuto sinonimo dell’industria cinematografica coreana ndr), visti i miei trascorsi d’insegnante mi è stato proposto d’esordire con un film sui giovani, The Rain that Falls Every Night (1979). Il film piacque molto, così ho cominciato a lavorare per Mbc, un’emittente televisiva, nella produzione e direzione di serial televisivi. Mi è stata data totale libertà e il successo delle mie produzioni tv mi ha permesso di fare cinema in maniera indipendente dalle costrizioni di mercato. [...] Nel mio lavoro cerco di prendere sempre ispirazione dall’esperienza della povertà nella mia gioventù. Si tratta di un approccio che non investe solo le scelte di temi o storie, ma che coinvolge lo stesso processo del fare film, una forma di etica e coscienza. Talvolta quando sento sbandierare le cifre investite nella produzione dei più recenti blockbuster coreani, penso che con quei soldi si sarebbero potute piuttosto assistere persone bisognose, soprattutto visto che su dieci film prodotti in Corea oggi, ben sei o sette non rientrano dei costi di produzione... Lo spirito di povertà rimane per me un pilastro nel fare cinema, come lo stesso amore per fare i film; l’amore per un’attività che richiede sacrificio, fatica e investimento personale più che monetario. [...] Sui nostri schermi si vedono bei film, pieni di belle persone, ma si è perso il contatto con la realtà. Il cinema coreano oggi è posseduto dal denaro, né più né meno di Hollywood. Nel parlare di cinema si menzionano sempre cifre su cifre, budget di film e biglietti venduti: il cinema è diventato solo una questione di numeri. Nelle interviste sulle riviste i registi parlano sempre di budget, cifre nell’ordine dei miliardi di won, mentre io, proprio per via del mio background ho sempre pudore nel discutere di soldi. Il cinema coreano ha dimenticato l’umanismo, un obiettivo che invece pongo sempre come prioritario. Ammiro lo spirito di Kim Ki-duk, il suo modo del tutto indipendente di fare cinema. Registi come Park Kwang-su, Im Kwon-taek o Lee Myeong-se che sono stati l’avanguardia dell’affermazione del cinema coreano sul mercato internazionale lavorano all’interno dei consolidati sistemi di produzione, mentre Kim, dopo che la sceneggiatura di Ago (Il Coccodrillo, 1996) fu cestinata, ha iniziato a produrre i suoi film da sé. Sento una profonda affinità con il suo modo di fare cinema, con pochi soldi e riprese leggere e veloci. Penso che se il cinema coreano dei blockbuster conoscesse un brusco tracollo, gli unici che continuerebbero a far cinema senza esserne toccati saremmo Kim ed io. [...] Ho sempre vissuto il disagio di venire dalla campagna e vivere in una grande città, e al contempo una difficile relazione con le donne di città. [...]”» (Paolo Bertolini, ”il manifesto” 2/8/2005).