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 2005  agosto 01 Lunedì calendario

Kamikaze, parla lo psichiatra della Cia, La Stampa, 01/08/2005 «Non sono pazzi e non sono uomini delle caverne ignoranti

Kamikaze, parla lo psichiatra della Cia, La Stampa, 01/08/2005 «Non sono pazzi e non sono uomini delle caverne ignoranti. Li motiva l’idea del martirio, giustificata da ragioni religiose e politiche. Siccome la loro forza è tutta psicologica, non possiamo fermarli solo con le bombe: dobbiamo vincere la battaglia delle idee». Pochi sono entrati nella testa dei kamikaze come lo psichiatra della Cia Jerrold Post, fondatore del Center for the Analysis of Personality and Political Behavior, ossia il dipartimento di intelligence che studia la mente dei nemici. Professore, ha mai incontrato un aspirante terrorista suicida? «Ho parlato con diversi capi delle cellule arrestati». Cosa scatta nella loro mente, che li spinge a uccidersi per uccidere? «Ho fatto notare che il Corano vieta il suicidio, e mi hanno risposto arrabbiandosi. Hanno detto che le loro azioni si ispirano al concetto di Istishad, cioè martirio. Il suicidio è un atto egoistico compiuto dai deboli. Loro invece si sacrificano per il bene assoluto di Allah. In prospettiva, poi, c’è la ricompensa del paradiso, ma senza dare troppo peso alla storia delle vergini e del sesso: la motivazione seria è religiosa e politica». Quali sono gli elementi che li convincono a togliersi la vita? «La strategia si basa su tre punti: la cultura del martirio sempre presente nel mondo islamico, la decisione strategica dei leader di utilizzarla, e la disponibilità delle reclute». Della prima abbiamo già parlato. Perché i leader hanno deciso di ricorrere alla strategia degli attacchi suicidi? «Pensano che sia in corso l’offensiva finale dell’Occidente e dei musulmani moderati per quello che noi chiamiamo modernizzazione e per loro invece è la fine dell’Islam. Li aspetta comunque la morte. Quindi è meglio morire combattendo, nella speranza di rovesciare la situazione». Perché reclutano così tanti volontari? «Qui bisogna fare una distinzione tra il kamikaze palestinese e quello di Al Qaeda. In base alle ”autopsie psicologiche” degli attentatori suicidi, il palestinese ha in media tra 17 e 22 anni, non ha studiato, è disoccupato e celibe. Lo hanno convinto dicendogli che comunque non potrà avere una vita decente, a causa della sua origine. Morendo, invece, diventerà parte di una grande causa, verrà venerato come eroe e la sua famiglia sarà beneficiata. Il suicida di Al Qaeda, invece, ha in media tra 28 e 33 anni, viene dalla classe media, ha studiato, e in molti casi vive o ha vissuto in Occidente. Ha cercato di integrarsi nella società moderna, ma ha fallito oppure è rimasto frustrato per qualche ragione. Frequentando le moschee o gli altri ambienti fondamentalisti è stato progressivamente indottrinato, e si è convinto che il martirio ordinato dal Corano sia l’unica via per salvare se stesso e l’Islam. La componente della diaspora, come abbiamo visto a Londra, è centrale, perché l’80% delle reclute jihadiste viene dall’Occidente. Si radicalizzano nelle nostre società, in base al trattamento ricevuto». Per questo la Gran Bretagna è stata colpita e gli Usa no? «Noi non siamo certo immuni, però abbiamo fatto un lavoro migliore nell’integrazione, perché è possibile diventare americani e restare musulmani. Italia, Francia, Germania rischiano di più, perché da voi essere accettati significa rinunciare un po’ alle proprie origini». Come possiamo fermare i kamikaze? «Il terrorismo è una forma viziosa di guerra psicologica: la forza degli attentatori suicidi non sta nella potenza dell’esplosivo, ma nella determinazione a morire per uccidere. Non possiamo batterli con le bombe. La risposta sta nella guerra psicologica, che deve avere cinque componenti: primo, inibire il reclutamento dei potenziali terroristi, lavorando sull’istruzione dei giovani e la collaborazione con i leader religiosi moderati; secondo, sanzionare i gruppi, ad esempio sfruttando le defezioni per provocare spaccature nelle cellule; terzo, favorire l’uscita, come faceste in Italia con la legge sui pentiti delle Br; quarto, ridurre il sostegno per la rete, spingendo gli imam moderati a demolire il mito di Bin Laden; quinto, rafforzare le nostre società perché resistano ai colpi. Questo programma richiede decenni per dare frutti, e noi abbiamo già perso la generazione giovane attuale: dobbiamo aspettarci violenza per almeno venti o trent’anni». Paolo Mastrolilli