varie, 2 agosto 2005
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Garang John
• Wagkulei Village (Sudan) 23 giugno 1945, 30 luglio 2005 (precipitando in elicottero al confine tra Sudan e Uganda). Politico • «Molto o poco amato che fosse (e lo era piuttosto poco), più o meno temuto (e di certo molti lo temevano), il leader sudista John Garang era un uomo chiave, un protagonista, nel processo di pace del Sudan. Una pace che ha impiegato moltissimo tempo e infinito dolore a maturare - quasi un quarto di secolo [...] ”Ho una guerra da vincere”, disse una volta Garang [...] ha sempre avuto la statura del capo, il coraggio del gesto risolutore. Fu lui a decidere che il dado era tratto quando, giovane ufficiale inviato dal governo a sedare la rivolta di una piccola guarnigione del sud, passò invece dalla parte dei ribelli e diede nuovo avvio alla guerra [...] non è mai stato un democratico. Il suo potere si è sempre poggiato sulla sua tribù, i Dinka, che pur essendo la maggiore etnia del sud Sudan sono ben lungi dall’esserne l’unica. Ha sempre represso con ferocia il dissenso e i tentativi di insidiare la sua guida autocratica. La sua incapacità di tollerare la discussione ha provocato negli anni crisi gravissime nello Spla, scissioni, omicidi, guerre intestine. Ma la sua astuzia politica ha sempre sopravanzato il suo comportamento spesso brutale, talora decisamente sanguinario. Ha saputo essere un amico prima dei sovietici e poi degli americani (arricchendosi all’occasione con gli uni e cogli altri); un ateo capace di sedurre i fondamentalisti protestanti americani; il capo di una rivolta che non si è però mai espresso per l’indipendenza del sud dal resto del Paese. Per questo ”doctor John” (titolo di cui si fregiava legittimamente, perché aveva ottenuto un dottorato universitario) è rimasto a galla fino alla sua ultima trasformazione, da leader guerrigliero a primo vicepresidente della Repubblica nel nuovo Sudan appena nato dagli accordi di pace. Il suo ritorno a Khartoum è del 6 luglio (2005) [...] Lo aveva accolto una folla in delirio: Garang nella capitale voleva dire che la pace era una cosa vera. [...]» (Pietro Veronese, ”la Repubblica” 2/8/2005). «Garang il ribelle aveva appena riposto le divise kaki, le mimetiche con cui ha arrancato per 20 anni nella savana sudanese, tra i villaggi sconvolti della più lunga e sanguinosa guerra civile africana. Una guerra di religione tra il nord musulmano e il sud animista e cristiano, ma non solo: mischia tribale, macello per spartisi l’oro nero, sporco intrigo geopolitico e postcolonialista. Con un milione di morti. Adesso vestiva con coloratissime camicie alla Mandela o impeccabili giacche occidentali: da vicepresidente qual era diventato. Senza più la immancabile 9 millimetri alla cintura e il kalashnikov a portata di mano ogni volta che qualcuno, anche dei suoi fedelissimi veniva a fargli visita. Era diventato meno sospettoso, meno prudente; si era convinto, dopo l’addio alle armi, che ormai il suo futuro fosse il tran tran della politica e le dolci spine dell’amministrare la rendita di 350 mila barili al giorno di petrolio che zampillano nelle ”sue” terre del sud. Che ora si possono estrarre visto che la guerra è finita. Garang, un gigante dagli occhi magnetici, la barba che si era ormai fatta bianca per gli affani di una lotta titanica e feroce, non è riuscito a diventare un politico ed un miliardario. La guerra l’aveva appiccicata addosso, non ha lasciato che si divincolasse. morto tra i rottami di un elicottero precipitato ai confini con l’Uganda, tra le montagne di Amatonj dove si era mille volte rifugiato. ”Problemi di visibilità, un banale sciagurato incidente” ha annunciato in tv [...] il suo nemico meticoloso e feroce, il presidente Al Bechir, capo del nord fondamentalista e musulmano. I due avevano firmato nel gennaio 2005 una pace miracolo. [...] Lui era la rivolta: nel bene e nel male. Carimastico, ambizioso, incorruttibile, tenace, certo, ma anche crudele sospettoso implacabile nel cancellare qualsiasi avversario interno. Per questo non aveva eredi, li ha eliminati tutti. Il suo partito-esercito senza di lui è decapitato. [...] Il guerrigliero dotato di humour che leggeva Sun Tzu e Clausewitz, amava la storia dell’impero romano, arruolava soldati bambini, utilizzava l’aiuto umanitario come fondo di guerra, vedeva congiure dappertutto. Solo con la ferocia poteva resistere alla caccia dei nordisti. Laureato in agronomia in America, ha trasformato la rivolta primitiva degli anyanyas (’il veleno del serpente”) degli anni ’60 in una rivoluzione di popolo. Da alleato dei comunismi africani si è convertito in discepolo di Bush: entrambi lottavano con l’uomo che ha offerto a bin Laden rifugio e appoggio economico. Ma al momento giusto aveva saputo tra ”allah abkar” e ”alleluja” firmare la pace. [...]» (Domenico Quirico, ”La Stampa” 2/8/2005).