Il Sole 24 Ore 17/07/2005, pag.31 Gianfranco Pasquino, 17 luglio 2005
Farsi esplodere alla ricerca di un senso. Il Sole 24 Ore 17/07/2005. Non tutti i suicidi sono eguali
Farsi esplodere alla ricerca di un senso. Il Sole 24 Ore 17/07/2005. Non tutti i suicidi sono eguali. Lo sapeva già e lo ha documentato da par suo, Emile Durkheim, uno dei fondatori della sociologia. Una particolare versione dei suicidi, quelli dei terroristi, viene adesso articolata e spiegata in un libro di ricerche originali sollecitate e raccolte da Diego Gambetta, professore di sociologia a Oxford e Official Fellow del Nuffield College. Making Sense of Suicide Missions (Oxford University Press, pagg. 378) analizza i kamikaze giapponesi e i Tamil dello Sri Lanka, i terroristi palestinesi e gli attentatori del 9/11, coloro che si immolano senza uccidere, a cominciare dal monaco buddista che si lasciò bruciare vivo nel 1963 per protestare contro la politica di discriminazione effettuata dai governanti cattolici sudvietnamiti, e coloro che uccidono senza farsi morire, come i terroristi dell’Eta. Anche in seguito alle bombe di Londra appare ineludibile porsi due quesiti, che Gambetta illumina in maniera del tutto convincente: chi e perché? Chi sono coloro che decidono di togliersi la vita per dare la morte al maggior numero di persone? Dal punto di vista del genere sono stati prevalentemente uomini, ma, oramai, con due eccezioni: le giovani donne palestinesi e le donne cecene. Entrambe hanno fatto drammatica irruzione nelle missioni suicide. Quanto alla collocazione sociale, sono persone che potremmo definire di classe media o medio-bassa, ma non i "dannati della terra", non i diseredati, non coloro che avrebbero marxianamente da perdere soltanto le loro catene. Semmai, come nota molto acutamente Stephen Holmes, analizzando gli attentatori del 9/11, sono degli sradicati, che non si sentono a loro agio nei Paesi di origine, di cui colgono la corruzione dei costumi, ma non riescono a inserirsi nel mondo occidentale, che, comunque, odiano, e sono consapevoli che, nonostante il loro livello di istruzione, rischiano una seria perdita di status. Quasi tutti gli autori, a cominciare da Luca Ricolfi, autore del capitolo sui palestinesi, aggiungono che la religione/religiosità, neppure nel caso dei terroristi islamici, non è l’elemento scatenante la decisione di effettuare missioni suicide. Molti dei terroristi sono secolarizzati e, semmai, usano il richiamo alla religione come elemento identitario proprio e delle comunità delle quali desiderano l’approvazione, il riconoscimento, quel tanto di gloria che è possibile ottenere. Soprattutto, preme agli autori sottolineare che le missioni suicide non vengono effettuate e non vengono affidate a personalità spostate, psicologicamente instabili, già predisposte al suicidio. Di costoro non ci si può fidare. Potrebbero con la loro urgenza fare fallire la missione. I terroristi suicidi hanno caratteristiche psicologiche che, in situazioni normali, definiremmo, per l’appunto, normali. Proprio per questo in una pluralità di contesti, come, ad esempio, quello di Leeds, è difficile individuarli: vivono una vita normale, come quella di molti altri, prima di sacrificarla consapevolmente. Di tanto in tanto, i terroristi suicidi compiono missioni individuali esemplari, come l’ebreo newyorchese Baruch Goldstein, che provocò un massacro di palestinesi facendosi saltare in aria nel 1994. In generale, però, c’è un’organizzazione alle loro spalle che li recluta, li seleziona, li addestra alla missione suicida e che provvede non soltanto al sostentamento dei famigliari, ma anche a tenere viva e onorare la memoria del suicida. La tesi dell’esistenza di una mente organizzativa a monte dei terroristi (suicidi) risale addirittura a Voltaire. Mantiene una sua validità. Il problema è, tuttavia, che, poiché esistono oramai numerose cellule terroriste, non basterà scovare e catturare un solo grande vecchio. Anche una volta capita meglio la varietà dei terrorismi e delle loro missioni suicide, come è possibile grazie a questo ottimo volume, la ricetta non può andare molto oltre quella suggerita da Gambetta: usare in maniera astuta la polizia e l’intelligence. Punire gli esecutori di missioni suicide non si può più per quanto difficile, si deve prevenirli. Gianfranco Pasquino